L'analisi

Oltraggio alla Catalogna

15 settembre 2017
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Il vicolo cieco in cui è finito il durissimo confronto tra gli indipendentisti catalani e il governo spagnolo ripropone in tutta la sua portata destabilizzante uno dei fenomeni che più segnano la nostra epoca, l’imporsi delle “piccole patrie” nel discorso pubblico, con forza e astio crescenti. Un sottogenere di quella “retrotopia” su cui ha ragionato anche Zygmunt Bauman verso la fine dei suoi giorni.

Oggi, il caso catalano raffigura, nella variante identitaria, il diffuso conflitto tra poteri statali sempre meno riconosciuti nella loro legittimità, e una pretesa sovranità alternativa: sovranità “del popolo”, nelle parole dei populisti (di destra o sinistra che siano); o “delle nazioni”, nelle rivendicazioni dei sovranisti.

Naturalmente, vi sono specificità della questione catalana che suggeriscono prudenza nel parlarne. Diciamo che tra la rivendicazione di una indipendenza risalente a tre secoli fa, una astorica rigidità che sembra impedire a Madrid di “entrare in argomento” senza pregiudizi politici e ideologici; tra il retaggio della guerra civile e della dittatura franchista, e il non trascurabile particolare che la Catalogna con meno di un quinto della popolazione spagnola produce un quinto della ricchezza nazionale, tutto ciò considerato, distinguere tra capziosità e fondatezza degli argomenti dei due fronti è ben arduo.
Ma vi sono delle costanti che fanno della vicenda catalana un caso di scuola per ragionare sulle forme e l’estensione del ritorno in auge delle piccole patrie e dell’identitarsimo che vi è connaturato. Un fenomeno che spesso viene comprensivamente diagnosticato come “reazione alla globalizzazione”.

Può darsi che lo sia: in un mondo in cui i poteri economico-finanziari sovranazionali hanno ridotto in macerie sovranità statali, cancellato orizzonti ideali, imposto, molto semplicemente, la legge del più forte, in un mondo del genere, la riscoperta di radici etniche, culturali, politiche sarebbe la sola risorsa a cui votarsi per non venirne travolti.
Di qui la corsa a tracciare nuovi confini, a riesumarne o inventarne di vecchi, a identificare se stessi (comunità o nazioni) non in relazione ma in opposizione agli altri, tanto più se portatori di culture diverse, ma anche se ancora se ne condivide la cittadinanza. Nel caso poi delle ambizioni micronazionaliste, l’autodeterminazione dei popoli viene esposta come principio di cui è praticamente impossibile contestare la nobiltà.

Eppure un dubbio resta. Viene cioè da chiedersi se questa frammentazione identitaria non sia in fin dei conti funzionale alla surroga dei grandi orizzonti ideali (e di un ormai spossato sistema di norme e istituzioni che ne riflettevano l’universalismo) da parte di un mercatismo senza volto né limiti.

L’ultimo simulacro di edificio istituzionale virtuoso, fondato su una pluralità di esperienze storiche e sulla dialettica delle loro culture era quell’Europa al cui interno, si diceva, le sovranità avrebbero perso il significato di reciproca esclusione, e il potenziale distruttivo che ne ha insanguinato la storia per secoli. Oggi, anche la crisi di quell’Europa libera tossine che ne accelerano la fine scritta sui confini che, uno alla volta, si richiudono o si inventano. Il signor Globalizzazione si starà fregando le mani.

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