L'analisi

Alla deriva nel Mediterraneo

8 agosto 2017
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Torbide acque del Mediterraneo. Non bastassero le migliaia di morti di cui sono state la tomba, oggi (e da mesi) sono lo scenario di manovre opache, velleitarie, talora inconfessabili, delle quali i migranti non sono altro che la posta. Tanto più elevata quanto più disputata. La loro stessa esistenza genera commerci, esaspera conflitti, svela codardie statali e appunta medaglie di latta sui petti di eroi di maniera. Ultimi a entrare in scena i sovranisti di Defend Europa, la cui nave C-Star impiega una ciurma di mercenari e ultrà dell’estrema destra.

È stato il recente sequestro della nave Iuventa, dell’Ong tedesca Jugend Rettet, a dare origine a polemiche artificiosamente ingigantite, e tuttavia meschine al cospetto del dramma e del fenomeno epocale che si stanno producendo tra l’Africa subsahariana e gli approdi dell’Italia meridionale (e che sarebbe ben miope considerare circoscritti al Canale di Sicilia).

In questo senso, la supposta (o provata?) connivenza tra l’equipaggio della Iuventa che imbarcava i migranti consegnati loro direttamente dagli scafisti, per poi sbarcarli nel primo porto italiano disponibile, pone certamente un problema giuridico, che tuttavia rischia di distrarre dalla questione generale: accogliere o no chi lascia il proprio Paese per tentare la fortuna altrove?

Limitandoci ai fatti, bisognerà intanto dire che – si accordi o no agli eroici furori di Jugend Rettet – la prassi della Iuventa e delle altre Ong che agiscono in modo analogo è oggettivamente un favore reso agli scafisti: evita loro fastidi con le marine militari e consente di recuperare gommoni e motori, che altrimenti verrebbero affondati. Nello stesso tempo, la pretesa che una Ong – soggetto di diritto privato – sia esente dal rispetto delle legge di uno Stato è perlomeno naif. O arrogante: basti leggere i commenti della stampa di sinistra tedesca sul governo “fascista” di Roma. Sia chiaro: la legge è fatta per l’uomo, non viceversa; se dunque con coscienza e per motivi che si ritiene superiori la si viola, lo si faccia – e talvolta è un merito –, ma se ne assumano le conseguenze.

Specularmente, la pretesa di uno Stato (o di un insieme di Stati, come in questo caso) che nessuno intervenga a sopperire alle sue inadeguatezze o a soccorrerne le vittime è altrettanto insensata e colpevole, pur se inquadrata in una normativa.

Questo chiama in causa una successione di eventi e di scelte di cui i governi europei, non solo quello italiano, devono rendere conto. Va quindi ricordato che l’attuale disordine nel Canale di Sicilia non nasce dal nulla, ma discende da cause lontane e più recenti. Innanzitutto è figlio della destabilizzazione libica seguita all’abbattimento del regime di Gheddafi (voluto da Parigi e Londra e “accettato” da Roma) e che oggi alimenta ferocissime dispute tra raìs locali, portaordini di potenze straniere e governanti di carta; e soprattutto assicura campo libero alle bande che controllano e lucrano sulle rotte dei migranti.

Più immediatamente, questa anarchia mortifera è anche conseguenza della fine dell’operazione Mare Nostrum, dispiegata dall’Italia e di carattere sommariamente umanitario, sostituita dall’operazione Triton, voluta dall’Ue principalmente allo scopo di controllo delle frontiere (lasciato tuttavia anch’esso sulle spalle italiane). Le Ong sono dunque intervenute, nei modi che non a tutti aggradano, non solo per il forte aumento dei flussi migratori, ma per sostituirsi alle omissioni dei governi. E qualche volta può anche capitare che le Ong vogliano sostituirsi ai governi stessi, e questo, sì, è un problema.

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