L'analisi

Israele, la deriva e la violenza

(MOHAMMED SABER)
24 luglio 2017
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L’ennesima escalation di un conflitto che accompagna la storia stessa dello Stato di Israele: diversi giorni fa la decisione del governo Netanyahu di installare dei metal detector per accedere alla moschea Al-Aqsa, sulla spianata delle moschee (area contesa che nella tradizione religiosa ebraica corrisponde al Monte del Tempio, ma che è internazionalmente riconosciuta come appartenente ai palestinesi), ha innescato un’inquietante spirale di violenza e di repressione.

Non è ovviamente la prima volta che la tensione tra israeliani e palestinesi esplode con la sua lunga scia di morti e feriti. Ma se la prima Intifada del 1987 sfociò una manciata di anni più tardi negli storici accordi di Oslo, questa rischia solo di spazzar via le ultime residue speranze di un dialogo possibile. Anche perché con il passare degli anni, e in assenza di un contesto internazionale di contrappesi diplomatici, il governo di Tel Aviv si è spostato su posizioni viepiù oltranziste, mentre sul fronte palestinese è venuta a mancare una leadership credibile, capace di imporsi sulla scena regionale, dove la solidarietà araba appare sempre di più per quello che in fondo è sempre stata: un simulacro dove si annidano ipocrisie, rivalità, odi.

La ricorrenza della guerra dei sei giorni, che sancì, 50 anni fa, l’emancipazione dello Stato di Israele, è stata lo scorso mese occasione di celebrazioni e riflessioni: la vittoria del Davide ebraico contro il Golia arabo fu un avvenimento storico di grande portata. Segnò anche il momento in cui il piccolo Stato, democratico in un contesto di regimi autocratici, si guadagnò ammirazione e stima in Occidente.

Mezzo secolo più tardi, Israele fornisce di sé un’immagine ribaltata: un paese guidato dalla forza, non dalla morale che, nelle parole del grande storico del fascismo Zeev Sternhell, ha quale reale obiettivo la conquista pura e semplice delle terre che il mancato rispetto della legge internazionale (le risoluzioni Onu 242 e 338, che potremmo riassumere nella formula “pace in cambio di territori”) e l’afflusso continuo di coloni (350mila circa) stanno trasformando in territori ebraici.

Il nodo gordiano della questione israelo-palestinese, si è detto per anni, è che sono in lotta due diritti. Entrambi legittimi. Un’affermazione che rimane ancor oggi vera.

Eppure non si può non notare quanto i rapporti di forza siano oggi totalmente sbilanciati. Una situazione sulla quale Benjamin Netanyahu ha costruito una politica che anche gli israeliani moderati e molti ebrei della diaspora considerano oltranzista e bellicista. Nella sua offensiva politica col pugno di ferro il premier ha stilato una lista di nemici: dall’Unione europea fino al miliardario ungherese George Soros, ebreo sopravvissuto all’Olocausto, denunciato dallo stesso Netanyahu durante il suo recente incontro con il controverso presidente magiaro Victor Orban. L’imperdonabile colpa di Soros? Quella di sostenere i movimenti pacifisti israeliani e di opporsi alle derive autoritarie sia in Israele sia in Ungheria.

Insomma, lo Stato ebraico formato Benjamin Netanyahu è agli antipodi del paese che si difese coraggiosamente cinquant’anni fa: il tentativo in atto da un paio di anni di modificare la legge per fare di Israele lo ‘Stato degli ebrei’ (relegando gli arabi israeliani a cittadini di seconda categoria) è la conferma di una deriva politica e ideologica che fa da sfondo alle violenze di questi giorni a Gerusalemme Est e in altre città della Cisgiordania.

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