L'analisi

Dal G20 al G19

10 luglio 2017
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Storico il summit di Amburgo lo è a diversi titoli.
Per la prima volta i paesi più influenti del pianeta escono dalla retorica del consenso e ammettono nel comunicato finale le loro divergenze. Riguardano essenzialmente la posizione americana in materia ambientale. Che per 19 paesi su 20 l’accordo sul clima sia da considerarsi irreversibile è fatto di straordinaria importanza. Il 19 a 1 può dunque essere visto come una pietra miliare nella battaglia contro il disastro ambientale globale. Merito in particolare della leadership tedesca e ora anche francese. Nonché degli sforzi innegabili, ancorché del tutto insufficienti, che la Cina, leader mondiale nel campo dell’energia solare, sta producendo.

Che gli Stati Uniti d’America, primo paese per inquinamento pro capite al mondo, ribadiscano in un arroccamento di cieco egoismo che il futuro del pianeta e del bene comune sia secondario rispetto alla logica del business, non può tuttavia che essere visto come un pericoloso passo indietro. La politica di Trump, condizionata dalle lobby delle energie fossili, affossa le aperture ambientaliste importanti promosse dal suo predecessore Barack Obama: che l’attuale inquilino della Casa Bianca voglia piantare quattro chiodi sulla bara dell’ecologia lo suggella la decisione annunciata due giorni fa da Washington, e passata un po’ inosservata, di ridurre di un terzo il budget dell’Epa, l’agenzia responsabile di tutta la politica ambientale americana. “Mai il nostro mondo è apparso tanto diviso, mai il bene comune è stato tanto minacciato” ha tuonato Emmanuel Macron. I segnali giunti da Amburgo sembrano indicare che il presidente francese abbia colto l’occasione dell’isolamento americano sulla scena internazionale, per tentare la carta della leadership franco-tedesca: una mossa per far rinascere l’asse Parigi-Berlino con una cancelliera che esterna, in un contesto di disordine mondiale, una forte leadership. Il summit conclusosi ieri segna dunque un’ulteriore tappa dell’isolamento statunitense: “loro non vedono il mondo come una cooperazione internazionale basata sul diritto comune, ma come un’arena dove si combatte e vince il più forte” ha sintetizzato il capo della diplomazia tedesca Sigmar Gabriel. Il divorzio con gli Usa al quale stiamo assistendo non è unicamente di natura politica: Donald Trump con il suo agire grezzo e unilaterale è l’incarnazione del declino ideologico della superpotenza: i suoi modi erratici, le sue tracimazioni verbali e i grotteschi eccessi comportamentali stanno riducendo quella che era una leadership mondiale ad uno spettacolo di vaudeville. Sintomatica al riguardo la reazione di uno dei maggiori scienziati e climatologi americani, Ben Santer, che in un fondo pubblicato ieri dal ‘Washington Post’ lancia un appello affinché il paese non lasci vincere “l’ignoranza del presidente Trump”. Per anni, nel dopo guerra fredda, si è discusso attorno al concetto di “America, potenza indispensabile”. Con l’attuale presidenza si teme che gli Usa assumano unicamente il ruolo di potenza dannosa. In fondo, nel suo celebre saggio “Ascesa e declino delle grandi potenze” lo storico Paul Kennedy aveva già previsto l’imminenza della fine dell’egemonia del suo paese. È come se il vertice di Amburgo avesse definitivamente chiuso quel “secolo americano” che la fine del bipolarismo aveva prolungato nel XXI secolo.

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