L'analisi

Non solo Brexit

29 marzo 2017
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Due anni da oggi per perfezionare la Brexit. È quasi certo che non basteranno a definire un accordo tra Regno Unito e Unione europea, ma da qualche parte bisognava pur cominciare.
Attivando da oggi l’articolo 50 del Trattato di Lisbona (una prima storica) che regola l’uscita dall’Unione, Theresa May si assume il compito niente affatto facile di traghettare il suo Paese verso un approdo che non ha smesso di magnificare, ma più per esigenze di copione che per autentica convinzione: la traversata potrebbe avvenire in un deserto, su un mare tempestoso o nel pieno di una bonaccia degna di Conrad. Non lo sanno, né lei né i Farage, dove arriveranno; non lo sa, e un po’ lo teme, neppure l’Ue.
La strada, del resto, non poteva che essere questa, dopo che la cosiddetta “volontà popolare” si era espressa nel referendum del giugno scorso. Giusto, sacrosanto. Solo che i politici, in particolare quelli specializzati nell’aizzare il “popolo” su temi di così facile presa, non possono sempre farne uso per mascherare le proprie indecisioni o incapacità. Perché una cosa è riempirsi la bocca di popolo, sovranità, indipendenza e amenità simili, un’altra è farne derivare una politica coerente, che risponda – anche se applicato a certe figure fa persino ridere – a un’etica della responsabilità. Se non altro per non finire contro un muro. La stessa May deve essersene resa conto se è vero che dopo avere sfidato l’Oltremanica affermando che “per Londra nessun accordo è meglio di un cattivo accordo”, ha già attivato i suoi diplomatici per spiegare alla controparte che no, che insomma in qualche modo un’intesa la si troverà…
La questione, infatti, è che si è davvero sovrani e indipendenti quando si conosce la misura del proprio passo e quella dell’interlocutore, o avversario se preferite. E il minimo che May potesse fare era di avvertire i propri concittadini che uscire dall’Unione sarà un travaglio da niente, se paragonato a quello che occorrerà per rinegoziare con gli indisposti Ventisette, da una posizione oggettivamente subordinata (salvo che nelle fantasie di Farage o dei nostalgici dell’Impero), gli accordi necessari a mettere piede, merci e persone fuori dall’isola. Ammesso poi che al nuovo confine eretto con l’Europa non se ne aggiunga uno con la Scozia, o torni a incendiarsi quello irlandese (che anche grazie alla comune appartenenza europea si era pacificato).
Non che l’Unione possa stare sul ponte ad attendere il cadavere del tronfio nazionalismo briton. La Brexit è a sua volta un sintomo preciso e inequivocabile del suo male. In un certo senso è solo il primo successo dei demagoghi che da tempo occupano una scena colpevolmente abbandonata da chi avrebbe dovuto tenerla: le istituzioni europee (alla cui greppia si alimentano, specialmente famelici, anche i più antieuropeisti) e i governi nazionali. Una latitanza che è stata principalmente asservimento a logiche folli di mercato, e assenza di visione, quella malafede che ha prodotto, tra gli altri, lo spettacolo indegno delle porte sbattute reciprocamente in faccia in tema di migranti. Che ha condotto a inseguire goffamente i nazionalisti sul loro stesso terreno per non perdere consensi, finendo per consegnargliene altri. Il capolavoro al rovescio di David Cameron, in definitiva, è stato proprio questo. L’Europa vi si specchi, si riconoscerà.

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