L'analisi

La ‘vendetta’ di Aleppo sull’ambasciatore russo in Turchia

20 dicembre 2016
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Un morto che “ne vale” molti di più. L’uccisione dell’ambasciatore turco ad Ankara è caduta con drammatico fragore sugli sforzi di Vladimir Putin (sinora riusciti) di accreditarsi come vincitore della guerra siriana, e soprattutto come playmaker indiscusso della politica mondiale. Al prezzo di migliaia di vite siriane e di svariate decine di soldati russi tornati in patria avvolti nella bandiera dell’onore. Se l’intervento in Siria doveva riscattare l’umiliazione militare patita in Afghanistan e quella politica degli anni-Eltsin, l’uccisione del diplomatico è un sinistro richiamo a un principio di realtà, al quale deve sottostare anche il più abile e ambizioso politico: entrare da castigamatti in un teatro di guerra destabilizzato come quello siriano è stato tutto sommato facile; restarvi non lo sarà; e uscirne potrebbe rivelarsi un giorno catastrofico. Intanto, la guerra, benché l’esito che si profila gli sia del tutto favorevole, non è finita; inoltre, a Putin verrà richiesto di essere all’altezza della piega che lui stesso ha voluto dare agli avvenimenti: tanto sul piano militare che su quello politico-diplomatico. Ricordando che il “fronte”, secondo la riuscita strategia jihadista e come hanno appreso a proprie spese gli europei, ha una geometria variabile che favorisce i terroristi. Sul piano politico-diplomatico, la gestione della questione siriana non è meno problematica. Ieri, Mosca e Ankara hanno reagito all’unisono all’uccisione dell’ambasciatore – entrambe sperando, e dichiarando in anticipo, che si sia trattato di un gesto isolato – e confermato di voler cooperare con Teheran a una “soluzione negoziata” del conflitto. Che si fidino l’una dell’altra è una finzione (la Russia sostiene e arma i nemici della Turchia, e questa ha assicurato la copertura ai gruppi jihadisti), ma per ora non hanno scelta. L’equilibrismo tra proclami e pratica sul terreno imporrà di evitare ogni eventuale accusa reciproca, e di ‘archiviare’ la morte di Andrey Karlov come la tragica dimostrazione (e in effetti lo è) che la guerra al terrorismo richiede le proprie vittime. Quella di un ambasciatore, rilanciata sui media di mezzo mondo, e quella dei suddetti soldati e civili, divenute sanguinosa ordinaria amministrazione. Anche per Putin e Erdogan, come valse per Bush e i suoi accoliti europei, la “guerra al terrorismo” fa da veicolo e giustificazione per ogni inconfessato disegno.

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