L'analisi

L’indice alla tempia che lo distingue

13 settembre 2016
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Chi lo considera incompiuto, chi incostante. Chi addirittura scostante, a causa di una condotta non sempre ineccepibile, in campo. Vuoi per l’impegno che a volte sembra venire meno, vuoi per le racchette frantumate in gesti di stizza anche un po’ infantili. Non è così lineare, Stan Wawrinka, il nuovo re di New York. Né è facile intuirne le emozioni, contenute in un fisico bestiale che scatena un tennis formidabile, e in una testa che con quel tennis, a volte, fa a pugni, consegnandolo a sconfitte imbarazzanti. O meglio, a sconfitte che altre grandi firme del tennis mondiale si concedono solo nelle giornate più nere (una o due all’anno), nelle quali il vodese incappa più spesso, senza neanche dare l’impressione di provarle tutte, per non caderci. Ha però una qualità invidiabile, “Stan the Man”, l’uomo ormai maturo che in fine di carriera regala agli appassionati il meglio di sé, in termini di risultati: quando conta, ma conta davvero, lui c’è. Si parla per lo più di Slam, giacché i Masters 1000 significano meno. Giusto o sbagliato che sia, lui sembra pensarla così. A ben vedere, ha ragione. Sono i grandi a pensarla così: sono gli Slam che ai massimi livelli fanno la differenza tra i tanti campioni della racchetta e i pochi fuoriclasse del tennis. In odor di “major”, the Man si trasforma in “the Slam”, ed è tutta un’altra musica. Qualche nota stonata in avvio di percorso, altrimenti non sarebbe Wawrinka bensì Federer o Djokovic, ma quando la marcia è lanciata, è una sinfonia inarrestabile. Godibilissima. Enfasi pura, cavalcata delle Valchirie. Il suo personaggio un po’ fuori dagli schemi del campione tipico fa un gran bene al tennis moderno, non privo di macchiette e profili autocelebrantisi, sprovvisti di titoli e quindi delegittimati (Kyrgios, Monfils), ma privo di personalità di spicco. Di personaggi, appunto. Il tennis che fu, e che si rievoca quando si tracciano paragoni più o meno attendibili, per lo più irriverenti, ne era ricco. Si pensi a John McEnroe, Ilie Nastase, Jimmy Connors, Boris Becker, André Agassi. Fuoriclasse con la bacheca piena, che trasudavano personalità e sfoggiavano un gran tennis. Il presente è ricco di tennisti da urlo e da record, ma è piatto, banale, scontato. Fin troppo riconoscibile. Riassumibile, per quanto attiene alla sua massima espressione, con l’abusato termine “Fab4”, o Fantastici Quattro che dir si voglia. Nulla da dire su carriere, palmarès e numeri da record dei Quattro, ci mancherebbe. Sono da invidia, da leggenda. Ma quanto a imprevedibilità, lasciamo stare. A quella, semmai, contribuisce Wawrinka. Non a caso Stan è anche “Stanimal”, un animale un po’ selvatico, genio irresistibile nei giorni più felici, sregolatezza (per quanto contenuta) in quelli meno ispirati. Numero uno al mondo quando il rovescio è poesia, i colpi girano e la testa li comanda, attivata dall’indice puntatole addosso con fierezza, il segnale della piena consapevolezza di sé, della propria forza; tennista da prendere a calci nel sedere per certi sprechi, per le pause prese nel processo di beatificazione sportiva giunto alla terza stazione, lungo un percorso che ne potrebbe anche prevedere altre. Lecito attendersi ulteriori squilli, se l’indice ritroverà la tempia. Alla faccia dell’incompiuta. Lunga vita alla sregolatezza, se prelude ai colpi di genio che lo sport, oltre ad esaltarlo, lo celebrano per davvero. Nella leggenda il tennis manda – a giusta ragione e a pieno titolo – Federer, Djokovic e Nadal, ma con uno come Wawrinka ci si diverte. Rompe gli schemi, spiazza. E con tre Slam ha poco o nulla da invidiare anche sul piano dei risultati.

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