L'analisi

Una tregua che non fa primavera

12 settembre 2016
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Una tregua non fa primavera. In particolare nel turbolento, contraddittorio e imprevedibile Medio Oriente. E soprattutto nel Paese maggiormente straziato, la Siria. Si vedrà dunque se reggerà l’accordo fra Russia e Stati Uniti. E già questo – cioè il fatto che l’intesa sia stata possibile soltanto grazie al ruolo delle due ‘potenze esterne’, che ora devono imporla ai propri alleati interni – ci ricorda che questa tragedia è anche, se non soprattutto, una guerra per procura, e che sul territorio siriano non si sta consumando unicamente un conflitto civile. Sette giorni di cessate il fuoco (soprattutto per portare soccorso alla popolazione civile della città martire di Aleppo) costituiranno dunque il ‘test’ iniziale per capire se sia poi possibile passare alla fase del negoziato politico, e quindi alla concretizzazione del progetto di una transizione i cui contorni sono ancora tutti da definire, soprattutto per quanto concerne il ruolo del dittatore Assad: se cioè alla fine Putin la spunterà imponendo che al suo alleato di Damasco sia garantito un personale ruolo futuro, oppure se Obama (e, soprattutto, chi gli succederà) potrà ottenere un suo deciso passo indietro, per approdare magari a un ‘assadismo senza Assad’ disposto a dialogare con la parte più accettabile delle formazioni islamiche in rivolta da cinque anni contro il regime. Attualmente, una sorta di quadratura del cerchio. C’è poi la parte dell’accordo che dopo mesi di difficili trattative vara il centro di coordinamento russo-americano (con sede in Giordania) che dovrebbe garantire una comune regia per i blitz aerei da sferrare contro le basi dello Stato Islamico. Per gli Stati Uniti, un modo per tentare di controllare che i caccia russi non concentrino i loro bombardamenti soprattutto contro le formazioni che godono dell’appoggio americano-saudita e che costituiscono la vera minaccia per il futuro di Assad; per la Russia, invece, la possibilità di vedere riconosciuto il suo ruolo bellico e diplomatico come decisivo e definitivo. Un compromesso forse impossibile senza l’opera di persuasione del segretario di Stato americano, John Kerry, su un Obama assai reticente, e che suscita un aperto dissenso fra i generali di Washington: per nulla disposti – insieme al ministro della Difesa Ashton Carter e al capo dell’Intelligence James Clapper – a condividere piani e intelligence militare con Mosca, da loro considerata responsabile del braccio di ferro fra Russia e Alleanza Atlantica in Europa. In queste condizioni, è più che giustificato lo scarso ottimismo degli specialisti sulla tenuta della tregua siriana. In effetti, sono davvero molte le insidie distribuite su una settimana che dovrebbe essere decisiva. Da una parte ci possono essere le difficoltà russe nel convincere l’amico di Damasco a far tacere le armi e tenere a terra gli aerei che hanno ferocemente e ciecamente colpito anche la popolazione civile con le micidiali ‘bombe barile’ e le armi al cloro (l’ultima tregua venne fatta fallire proprio da Assad); e d’altra parte nemmeno sarà semplice per gli Stati Uniti e soprattutto per l’Arabia Saudita (sulle cui vere intenzioni vi sono molti dubbi) esercitare pressioni sul fronte comune che l’assedio di Aleppo ha obiettivamente creato fra i jihadisti di Al-Nusra e i cosiddetti ‘moderati pro-occidentali’ per resistere, come ha resistito finora, all’attacco dell’esercito siriano. Sì, l’annuncio della tregua che dovrebbe scattare stasera potrà forse alleviare la condizione di una popolazione stremata e prigioniera di una delle più grandi follie del nostro tempo. Ma la Siria non è solo un campo di lutti e macerie, è anche un terreno minato da inesauribili trappole politiche.

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