L'analisi

Il ritorno alla crescita

7 settembre 2016
|

Fino a quando non verrà creato un indicatore alternativo più attendibile, il Pil (Prodotto interno lordo) rimane l’unico – anche se imperfetto – strumento per calcolare lo stato di salute di un’economia. Non per forza a Pil in aumento corrisponde per forza di cose maggiore benessere. A ogni modo, i dati rilasciati dalla Segreteria di Stato dell’economia (Seco) confermano il buon momento della congiuntura elvetica. Nel corso del secondo trimestre dell’anno il Pil è salito dello 0,6% rispetto ai tre mesi precedenti. Su base annua, il Pil reale (depurato dell’inflazione che è ormai da tempo sparita dalla circolazione) è aumentato del 2 per cento. Una crescita non scontata, date le premesse di un perdurare della robustezza del franco rispetto alle principali valute internazionali e di una congiuntura mondiale tra le più fiacche dell’ultimo decennio. Se aggiungiamo gli onnipresenti rischi geopolitici (terrorismo, conflitti mediorientali irrisolti da troppo tempo) e la debolezza delle economie emergenti, abbiamo un quadro non per forza ottimistico. A contribuire maggiormente alla creazione di valore aggiunto (altra definizione del Pil) è stato il settore pubblico allargato: dai servizi sociosanitari (+1%), alle amministrazioni statali (+0,8%). È venuto a mancare, ancora una volta, l’apporto dei consumi privati, rimasti invariati. Questo a riprova, di nuovo, che la spesa delle famiglie (oltre il 60% del Pil) è repressa proprio da un clima generale di pessimismo che non invoglia – per usare un eufemismo – alla spensieratezza consumistica. In calo anche il settore manifatturiero (-0,1%) colpito, come del resto gli altri settori votati all’export, dalla forza del franco svizzero. Preoccupa, in questo ambito, pure il calo degli investimenti in beni strumentali (-0,9%), vero barometro dell’ottimismo degli imprenditori. Se non si rinnova il capitale fisso, difficilmente si aumenta la produttività e quindi si compromette la capacità di competere – per un’economia caratterizzata da costi del lavoro elevati – a livello internazionale. Vista da fuori, dall’Unione europea per esempio, l’economia svizzera gode di solide basi. Da troppo tempo, però, il contributo alla crescita è portato in prima battuta dall’aumento della spesa sociosanitaria (è anche il settore con le prospettive occupazionali a lungo termine più elevate) e da quella per le costruzioni. L’invecchiamento della popolazione e la forte immigrazione dell’ultimo decennio hanno fatto aumentare la domanda di servizi sanitari e quella edilizia. Fattori, questi ultimi, che si sono fatti sentire in modo benefico sul Pil, ma che hanno portato con sé anche un rovescio della medaglia fatta di aumenti della spesa sanitaria globale, che colloca la Svizzera ai primi posti dei Paesi dell’Ocse, e valori dei prezzi degli immobili fuori mercato per molte persone. Due elementi che ‘deprimono’ ancora di più la propensione al consumo e il reddito disponibile delle famiglie. Inoltre il debito ipotecario totale a fine 2015 era pari a 923 miliardi di franchi, ben oltre il 100% del Pil. Un dato che trasforma gli svizzeri nel popolo più indebitato al mondo. Una situazione gestibile in un periodo con i tassi d’interesse ai minimi storici e di crescita economica, anche se moderata. Ma che potrebbe trasformarsi in vero e proprio dramma per il sistema finanziario nazionale – oltre che per i debitori – nel caso di un aumento repentino dei tassi d’interesse e di brusca correzione dei valori immobiliari.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔