L'analisi

Erdogan e Putin di necessità virtù

10 agosto 2016
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Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan non sono tornati amici, ma paiono aver riscoperto ieri a San Pietroburgo la virtù degli interessi comuni. Derivati, non inganni la retorica delle dichiarazioni ufficiali, da reciproche necessità, economiche non meno che politiche.
Dei due, ad avere più bisogno di un incontro pacificatore debitamente pubblicizzato era evidentemente il presidente turco. Se Putin incontrerebbe anche il diavolo pur di spostare su Mosca l’asse mondiale dell’influenza, Erdogan – un po’ per volontà propria, un po’ suo malgrado – si è progressivamente trovato nei panni del diavolo a cui vengono chiuse in faccia molte porte varcate in precedenza con ogni onore, o comunque con rispetto.
Il consenso eccezionale (o eccezionalmente orchestrato) di cui gode in patria dopo un opaco tentativo di colpo di Stato conferisce infatti a Erdogan una leadership interna inattaccabile, ma con la paradossale conseguenza di un crescente isolamento internazionale. Al quale contribuisce anche il carattere irascibile e permaloso del personaggio, confermato dalle parole sprezzanti usate nei confronti degli interlocutori europei e statunitensi per la loro tiepida reazione al golpe fallito e per le loro rimostranze dinanzi alla successiva accelerazione autoritaria e autocratica imposta dal presidente islamo-conservatore alla Turchia.
Bussare all’uscio di Putin (previa lettera di scuse per l’abbattimento, un anno fa, del jet militare russo sconfinato nei cieli turchi durante una missione in Siria) era perciò diventata una necessità che solo circostanze in parte fortuite hanno consentito di mascherare come sussulto d’orgoglio nazionale o scelta di riorientamento strategico (“svilupperemo rapporti con Mosca anche nella Difesa”, ha detto il capo dello Stato il cui esercito è il secondo della Nato, e che ospita un congruo numero di testate nucleari statunitensi). Se questo mai dovesse avvenire, richiederà tempo e una serie di passi di estrema delicatezza, che (se i fallimenti, sin qui, della sua politica estera insegnano qualcosa) Erdogan è il meno idoneo a compiere.
Prima, comunque, premono urgenze a cui non si sfugge con la propaganda. Innanzitutto la Siria. Non a caso, Putin ha chiarito dopo l’incontro che di Siria si riparlerà separatamente. Tradotto: per ciò che concerne Mosca, la posizione di Assad non è in discussione; Erdogan, che per vederne la rovina ha concesso all’Isis il libero transito (e qualcosa in più, come hanno documentato i giornalisti che ha fatto sbattere in galera), se ne faccia una ragione. La guerra che Mosca combatte direttamente e Ankara per procura le vede ancora su fronti opposti, e a deciderne le sorti sarà semmai un accordo russo-americano al quale Erdogan potrà tutt’al più conformarsi.
Quanto al tormentato rapporto con l’Unione europea, ad accomunare Erdogan e Putin vi è una certa (non così infondata) animosità. Ma se il secondo non perde un’occasione per tentare di indebolirla, il primo, nonostante tutto, recrimina di non potervi mettere piede. E ancora: Putin minaccia di fermare il gas, Erdogan di non fermare i migranti. Non abbastanza per definirla una politica comune. Ben lontani.
Senza dimenticare che mentre Erdogan tornerà in patria millantando una ritrovata autorevolezza internazionale, lo stesso Putin che gliel’avrebbe accordata incontrerà (oggi) il presidente di quell’Armenia con la quale Ankara ancora non ha normalizzato le relazioni. Perché Erdogan sarà pure il benvenuto, ma non creda di essere il preferito.

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