L'analisi

‘Brexit’ e Trump i veri pericoli?

20 giugno 2016
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Dell’Unione europea si dice oggi che corra il rischio di essere stritolata dalle chele di una micidiale tenaglia: la ‘Brexit’ su un lato, e sull’altro l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma la verità è che anche se non si realizzassero questi due scenari, tanto agognati dal populismo euro-fobico, nulla assicura che il futuro dell’Ue sarebbe garantito o meglio gestito. Certo, se a novembre Hillary Clinton diventasse la prima donna presidente nella storia degli Stati Uniti, tirerebbero un sospiro di sollievo coloro che fra l’altro temono che il suo sfidante repubblicano guiderebbe l’America su posizioni protezionistiche e isolazionistiche, in cui il vecchio continente si vedrebbe tra l’altro costretto ad aumentare di molto i propri contributi finanziari in sede Nato. Così come una sconfitta del ‘leave’ nel referendum britannico di giovedì prossimo tranquillizzerebbe chi teme un effetto domino, cioè che una sorta di contagio centrifugo spinga altre nazioni dell’Unione a processi di secessione. Ma forse che questi scenari più rassicuranti risolverebbero qualcosa della crisi europea? Per nulla. L’Europa così com’è rimarrebbe la ‘grande malata’, sempre a rischio di implosione sotto l’urto della crisi economico-occupazionale, dell’incapacità di elaborare una politica migratoria condivisa, dell’irrisolto contrasto fra la linea del rigore e quella dello stimolo pubblico alla crescita, e dunque della crescente disaffezione dell’opinione pubblica. “Non ci si innamora di un mercato”, diceva giustamente Jacques Delors. Figurarsi se ci si può affezionare oggi a un mercato che ha oltretutto perso la forza propulsiva dei decenni scorsi, e che allargandosi precipitosamente ad altri Paesi dell’Est ha prodotto più problemi che risorse. Non sorprende dunque che vi siano solidi ma delusi europeisti che non solo non temono l’uscita del Regno Unito, ma che addirittura la auspicano. Non soltanto perché Londra si è rivelata in politica estera quel partner poco affidabile già denunciato dal generale De Gaulle, per il quale la Gran Bretagna sarebbe sempre stata il “cavallo di Troia americano” (come in effetti avvenne per la guerra irachena). Ma soprattutto perché il Regno Unito – influenzando in tal senso anche diversi nuovi partner dell’Europa centro-orientale – ha sempre operato come un freno al già problematico processo di integrazione. Dunque, ritengono costoro, meglio un’Europa senza Gran Bretagna, addirittura abbandonata anche da altri partner, magari ridotta alla sola eurozona, capace però di rilanciarsi, dopo l’eventuale shock britannico, in modo più deciso e compatto sulla via federalista. Possibilmente con un ‘quick win’, cioè un immediato piano economico, sociale, e di sicurezza di cui i cittadini dell’Unione possano cogliere al più presto i benefici. Mentre un’America isolazionista costringerebbe l’Europa a ripensare alla propria difesa comune, ma anche a un rapporto più autonomo nei confronti della Russia e di Putin. Solo utopie? È possibile. Ma una certezza c’è: ed è che dopo l’eventuale scampato ‘pericolo’ della Brexit o di una presidenza americana ‘trumpista’, il peggio sarebbe che l’Europa continui a essere quella che vediamo. Senza una leadership politica capace di condizionare lo strapotere del mondo finanziario. Senza progetti in grado di recuperare i temi dell’equità sociale. Senz’anima. E destinata comunque al naufragio.

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