L'analisi

Se il ‘Times’ guarda alla Svizzera

23 maggio 2016
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Volete immaginare una Gran Bretagna fuori dall’Unione europea? Per rispondere alla domanda tutt’altro che retorica dei suoi lettori, ad un solo mese dallo storico referendum sulla ‘Brexit’ – uscire o no dall’Ue –, il ‘Times’ propone un’inchiesta a più puntate sulla Svizzera. Naturalmente non fornisce risposte categoriche. Anzi, sottolineando comunque la specificità elvetica, le molteplici risposte raccolte dal quotidiano londinese nella Confederazione lasciano sostanzialmente irrisolti molti interrogativi che in questi giorni agitano gli elettori britannici ancora indecisi, una fetta tuttora importante dell’elettorato britannico. Saranno loro a determinare l’esito della consultazione. Ma il riferimento alla Svizzera, questo indagare su un modello elvetico apparentemente inapplicabile alla realtà del Regno Unito, è significativo per comprendere il dilemma britannico. Dicono gli ultimi rilevamenti demoscopici che i favorevoli all’‘in’ (rimanere nell’Ue dopo i simbolici vantaggi ottenuti da Cameron a Bruxelles) sarebbero in vantaggio. Non di molto, ma in vantaggio. E tuttavia gli stessi sondaggisti ammoniscono che si tratta di una consultazione troppo emotiva per garantire la solidità della previsione. Gli umori possono repentinamente cambiare, e gonfiare soprattutto i timori di chi alla fine potrebbe preferire lo strappo dall’Unione a causa dell’ondata migratoria, che ispira fortemente i partiti dell’‘out’, insieme alla convinzione che l’Ue esprima i connotati di una implacabile dittatura: «Come Napoleone e Hitler che volevano unificare l’Europa dominandola», sostiene addirittura il controverso ex sindaco di Londra, il conservatore Johnson, che in realtà sta facendosi campagna per subentrare al numero 10 di Downing Street. Insomma, la tentata, antistorica e goffa riesumazione di un Nelson e di un Churchill per contrastare il pericolo esterno, tesi che affascina quella parte di classe media e bassa che in realtà si sente impoverita dalla mondializzazione. Non le passioni, ma le cifre dominano la campagna dell’altro fronte. E, un po’ paradossalmente, Il pericolo dell’uscita dall’Ue salda per l’occasione due fronti contrapposti. Quello economico-finanziario, e quello sindacale. In qualche modo, la City e le Unions. Dal primo fronte si insiste soprattutto sui danni economici immediati: l’‘out’ significherebbe indebolire fortemente la sterlina, compromettere tre milioni di impieghi legati alle esportazioni nei Paesi Ue, decretare l’aumento del costo della vita per ogni famiglia britannica di almeno 5’000 franchi all'anno, imporre un taglio di 36 miliardi di sterline alla spesa pubblica, con un forte danno al celebrato (un tempo) modello della sanità pubblica. Ma l’analisi socialmente più interessante la fornisce il leader laburista Corbyn, un marxista per nulla sostenitore dell’Europa così come si è realizzata finora, col dominio della finanza sulla politica. Sostiene infatti Corbyn: questa Europa va senz’altro cambiata, ma bisogna farlo rimanendo uniti, mentre una vittoria della ‘Brexit’ lascerebbe mano libera alle forze ultraconservatrici e ai movimenti anti-sistema intenzionati a smantellare ulteriormente i diritti del mondo del lavoro e delle classi meno abbienti. Questo sul piano interno. Su quello esterno una ‘Brexit’ sarebbe uno shock (chissà, magari anche salutare) per il resto dell’Unione europea; ma potrebbe pure destabilizzare la tenuta di una Gran Bretagna già alle prese con l’indipendentismo scozzese e i timori rinascenti dei cattolici nord-irlandesi.

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