L'analisi

La lezione di Francesco a Lesbo

18 aprile 2016
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È su uno dei fronti più caldi della “terza guerra mondiale a pezzi” – come lui stesso la chiamò nell’agosto del 2014, con una definizione anche controversa -, è su uno di quei fronti più caldi che papa Francesco ha voluto incontrare un “pezzo” di umanità disperata che, attraversato un breve ma periglioso tratto di mare, si è ritrovata nella gabbia del rifiuto che l’Europa ha costruito anche per famiglie sopravvissute alla guerra più atroce del Medio Oriente, quella siriana. Un pontefice che per la sua prima trasferta fuori le mura vaticane scelse l’isola di Lampedusa, ha fortemente voluto il viaggio che sabato lo ha portato a Lesbo, un’altra isola simbolo delle nostre aride paure. Un atto pastorale, ma soprattutto un gesto politico forte. Su uno dei terreni, l’accoglienza dell’“altro”, su cui il papa venuto dalla frontiera del mondo insiste maggiormente, raccogliendo però più ostilità e indifferenza che soddisfazioni. Nemmeno un pontefice popolare e amato come Bergoglio sembra poter abbattere i muri con cui ci si illude di costruire una impenetrabile fortezza nel continente che ancora si vanta di essere la patria dei diritti umani e il rifugio dei perseguitati. C’è chi l’ha definita una “profetica impotenza”, questa ostinazione di Francesco, sabato affiancato dal patriarca greco-ortodosso Bartolomeo, nel voler scuotere le coscienze di fronte a quella che la facile politica in cerca di facili voti spaccia solo come tragedia del nuovo secolo; non vedendone o negandone ostinatamente anche le opportunità, per Paesi demograficamente esangui e che, per fare solo qualche esempio, devono già affidarsi agli “altri” per garantirsi l’assistenza sanitaria, l’avvenire delle loro pensioni, il futuro di umili faticosi ma indispensabili occupazioni. Ma non sarà certo la vera o presunta “impotenza profetica” a paralizzare papa Francesco su quella che è diventata la cifra del suo pontificato. Del resto, così avvenne anche quando volle che l’israeliano Peres e il palestinese Abu Mazen piantassero l’ulivo della pace nei giardini vaticani, consapevole che i frutti di quell’albero non sono per oggi. Da soli, gesti generosi e parole inequivocabili non bastano certo a cancellare i torti del mondo. Ma rimangono il monito e la forza dei simboli. Quei moniti, per molti impopolari e sospetti (come il ritorno in Vaticano con 12 profughi musulmani), e quella forza, non derivata dalla prepotenza, che ormai mancano ai politici. Forse che i leader europei, bloccati anche dai calcoli elettoralistici, hanno anche solo pensato a una tappa a Lesbo? E, nella circostanza, quanto hanno tenuto conto non solo degli ultimi ma anche dei “penultimi”, quel popolo greco a cui si è chiesto il massimo sforzo anche per l’assistenza ai migranti, mentre si sa che su undici milioni di abitanti quasi la metà vive in povertà o sulla soglia della povertà (2,5 milioni i primi; 3,8 milioni i secondi). Il messaggio di civiltà inviato dal papa da Lesbo non potrà rovesciare i parametri di scelte politiche che affondano le radici in conflitti regionali che l’inesistente Europa ha trascurato nei suoi inevitabili effetti perversi, e quindi lasciato alle “cure” belliche e ai giochi di interesse di chi (da Washington a Mosca) non ha certo come priorità i guai del vecchio continente. Se, come è stato scritto, la carezza di Francesco ai bambini profughi si è trasformata in schiaffo al mondo e all’Europa, è anche per il tentativo di risvegliarne le coscienze. Un’altra “profetica impotenza”?

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