L'analisi

Lo smacco di Merkel segnale inquietante per l’Europa

15 marzo 2016
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Pessimo il segnale venuto dalle tre elezioni regionali tedesche. Pessimo per Angela Merkel e più ancora per l’Europa, intesa – per una volta – non nel senso di Unione europea, ma come scenario in cui agiscono decine di nazioni con necessità e interessi non sempre convergenti.
Sommariamente si possono distinguere due interpretazioni del voto tedesco di domenica: una rimanda alle contingenze, ai “motivi” per cui una parte importante degli elettori si è rivolta alla destra populista; l’altra fa riferimento alle forme della proposta politica che ha raccolto così tanti consensi, e a quale prospettiva rinviano i suoi contenuti.
A differenza di Francia e Italia, dove la crisi morde ancora, la Germania mantiene un livello economico invidiabile; dunque cercare nei ceti svantaggiati la forza elettorale di Alternative für Deutschland non vale molto a spiegare il suo successo.
A spingere gli elettori ad affidarsi all’Afd è stata piuttosto la politica di accoglienza dei migranti annunciata (più che praticata) dalla cancelliera. Dopo le prime, massicce, manifestazioni di solidarietà, i vagoni colmi di profughi e le immagini delle colonne di persone in cammino verso le frontiere hanno presto mutato la commozione in fastidio e poi in risentimento.
Infine Colonia… Ci saranno sfumature che un’analisi più approfondita del voto farà emergere per darne una interpretazione più mirata, ma intanto questo sembra il quadro più attendibile.
Qualcosa si può poi dire dei contenuti della proposta politica di Afd. Confusa, necessariamente, come ogni politica scarsa di analisi ma forte in propaganda. Una confusione che è salda tuttavia sugli elementi che la fondano: il nazionalismo e quindi l’esclusione. L’esclusione dei migranti, ma anche della Grecia (per le sue “colpe” e perché sia di monito agli altri “Stati cicala”), e l’auto-esclusione dall’euro (ciò che significherebbe la sua fine) per non dover spartire il proprio benessere con chi “non lo merita”.
Se si confermasse la sua sconfitta su questo terreno, Angela Merkel dovrebbe decidere se riscattare la propria politica facendo valere la propria figura contro quella di Frauke Petry, o adeguare il passo agli umori tanto sgarbatamente sbattuti in faccia dal voto, come potrebbe indurla a fare un tratto opportunista della sua indole.
Ma già ora un indebolimento di Merkel (senza peraltro voler difenderne certe opacità) è un problema per l’Europa. Non solo perché, nel bene e nel male, è la sola leader a spiccare su un panorama di mezze figure o di fanfaroni, in un momento in cui le spinte centrifughe e le frammentazioni infranazionali portano la crisi al suo (provvisorio) apice. Lo smacco subito dalla cancelliera è soprattutto, vista la forza che ne è l’artefice, il segnale inconfondibile che i nazionalismi stanno sostituendo in Europa le visioni comuni (fossero di classe o di più mite “utopia federalista” alla Spinelli). Nazionalismi o micronazionalismi che si fanno facilmente largo nei varchi lasciati aperti dalle gravissime contraddizioni delle élite continentali. Le responsabilità di queste ultime alimentano la forza dei primi.
La carica antisistema dei populismi, pur declinati diversamente secondo specificità locali, è il tratto politico della nostra epoca. Un quadro nuovo, ma non del tutto: con le differenze del caso, sotto i loro colpi le democrazie rischiano di cedere come i sistemi liberali cedettero negli anni Trenta del Novecento. Poi, è vero, la storia non si ripete. Ma sembra anche che non insegni.

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