L'analisi

Turchia, rivincita inquietante

2 novembre 2015
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Dei regimi illiberali, poco scrupolosi anche nella manipolazione delle urne, si sa che possono compiere prevedibilissimi prodigi politici. Ma quello riuscito ieri a Recep Tayyip Erdogan può sembrare un autentico miracolo elettorale, la conquista di circa dieci punti percentuali in più rispetto alle elezioni di inizio giugno, che avevano umiliato lui e il suo partito islamo-conservatore Akp, privandolo della maggioranza assoluta dopo 13 anni. Meno di cinque mesi sono dunque bastati al ‘Sultano’ per riattribuirsi l’immagine di uomo della provvidenza, riconquistare il controllo del parlamento, sognare il passaggio a un sistema iper-presidenziale. Da soli, i temuti, possibili, probabili brogli che l’opposizione denunciava ancor prima del voto (e che ieri sera infiammavano le piazze della protesta curda), non possono comunque spiegare l’inquietante rivincita di Erdogan. È invece plausibile che l’eccezionale dato dell’affluenza indichi una più vasta mobilitazione delle fasce più conservatrici, socialmente marginali, filo-islamiche e soprattutto impaurite della società turca, su cui in effetti puntava il capo dello Stato per effettuare questo riuscito recupero. E di farlo nonostante quello che dovrebbe comunque essere il ritorno in parlamento (grazie allo scavalcamento della quota minima del 10 per cento dei suffragi) del suo più acerrimo avversario, l’Hdp filo curdo, votato anche da chi reclama più diritti politici, più equità sociale, e la ripresa del dialogo con gli indipendentisti del Pkk. La sera del 7 giugno, dopo lo schiaffo subito dal partito islamista, avevamo scritto che Erdogan non si sarebbe arreso, e che, avendo infeudato lo Stato turco, possedeva di sicuro gli strumenti necessari per rovesciare quel verdetto. Così è stato. Ha respinto ogni possibilità di governo di coalizione, proclamato elezioni anticipate, rafforzato il controllo di polizia e magistratura, imbavagliato quasi tutta la stampa indipendente, arrestato giornalisti e oppositori, martellato ossessivamente sul tasto del nazionalismo, iniziato due guerre, una contro l’Isis a cui ha precipitosamente attribuito l’attentato di Ankara, senza precedenti per numero di vittime. Insomma, il ricorso a tutto l’armamentario utile per creare quel clima politico che ha legittimato la violenza di un autentico Stato di polizia, e alimentato artificiosamente i timori popolari per una nazione profondamente lacerata, definita sull’orlo del baratro e descritta come destinata allo sfascio. Abilmente, poi, Erdogan ha sfruttato anche la scena internazionale: soprattutto grazie alla riabilitazione europea ottenuta da Angela Merkel, ambasciatrice generosa di una Ue preoccupata dalla prospettiva che Ankara apra del tutto le porte a oltre due milioni di profughi siriani ospitati dalla Turchia. Che ne farà ‘Tayyip Bey’ di un risultato che di certo sente come un favorevole plebiscito? Il puzzle della politica turca è fin troppo complicato e imprevedibile per fare pronostici attendibili. L’uomo che vive in un palazzo di 200mila metri quadrati ad Ankara, immagine plastica della sua mania di grandezza, negli ultimi anni si è mosso in modo spesso contraddittorio. Due uniche certezze. La prima: l’esito di queste politiche, insieme al temperamento del vincitore, potranno difficilmente contribuire alla pacificazione di un Paese attraversato da profonde divisioni politiche, culturali, comunitarie e generazionali. Seconda certezza: per Erdogan il rilancio del sogno di diventare il nuovo Kemal Atatürk. Un ossimoro storico, visto che la laicità del padre della moderna Turchia fa a pugni con l’ideologia religiosa di Erdogan, che in effetti minaccia di distruggere proprio l’eredità del kemalismo.

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