L'analisi

Sì, Putin ha un piano

1 ottobre 2015
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“Ha un piano segreto sulla Siria”, si diceva di Putin negli scorsi giorni nei corridoi dell’Onu. Non c’è stato bisogno di attenderlo a lungo. Rimessosi al centro della scena internazionale che aveva cercato di bandirlo dai grandi tavoli internazionali (in verità con scarso successo), lo zar è subito passato all’azione, quella che conosce meglio, l’uso della forza. Stavolta per accreditare l’immagine del pacificatore nel tragico marasma vicino-orientale. Ai tempi della guerra fredda, si ripeteva che i leader sovietici fossero abili scacchisti, il che non impedì certo il rovinoso crollo dell’Urss. Di Putin si conosce invece la predilezione e la pratica delle arti marziali. Quindi la capacità di assestare il colpo decisivo nell’istante di maggior squilibrio e difficoltà dell’avversario. Così lo stratega del Cremlino prima ha preparato (con l’invio a Damasco di uomini e armi) e poi assestato (ieri, con il blitz dei suoi caccia) il primo colpo russo nella “campagna di Siria”, ufficialmente contro lo Stato islamico, in realtà mettendo nel mirino dei suoi piloti anche altri bersagli. Il contrasto con le lentezze, gli impacci e le contraddizioni di una coalizione occidentale incapace di fermare le bandiere nere e insanguinate del neo-califfo Al Baghdadi non potrebbe essere più stridente. I muscoli di Putin contro i tatticismi di Obama; la tela faticosamente intrecciata alla Casa Bianca e l’energico decisionismo sprigionato dalle stanze del potere russo. Il nuovo zar intuisce perfettamente l’ammirazione e il beneficio di popolarità immediata (alla lunga si vedrà) che la sua mossa può registrare anche nel pubblico americano ed europeo: impauriti dalla prospettiva di dover sempre più far fronte anche sul proprio territorio alla violenza del jihadismo, e preoccupati dalla pressione di un esodo di massa da quelle terre sconvolte, i cittadini d’Occidente non saranno certo così ostili alla determinazione guerriera del nuovo zar. Rendendo più difficili le contromosse dei loro governi, alle prese anche con l’enigma dell’Iran attivamente impegnato a fianco della Russia, e più cauti nelle denunce sull’Ucraina. Il primo obiettivo di Putin è dunque Obama, messo per il momento all’angolo, come avvenne con il problema della “linea rossa”, quando fu l’abile intervento del presidente russo per il disarmo chimico di Assad a togliere la Casa Bianca dalla tagliola in cui era finita. E l’impressione del “guerriero titubante”, termine ripetuto contro il Capo della Casa Bianca dai suoi rivali repubblicani, rimarrebbe anche se – come ha cercato di spiegare un impacciato Obama di fronte alle iniziative russe – in realtà tutto si spiegherebbe con la volontà del Cremlino di partecipare ai benefici di una vicina e immancabile sconfitta di Al Baghdadi, “ormai completamente circondato”, assicura il presidente. Certo, può reggere anche l'ipotesi che ci sia un consapevole (e concordato?) gioco delle parti, e che ad Obama in fondo non dispiaccia troppo, come avvenne appunto per gli arsenali chimici, che sia l'avversario russo a sfiancare le armate jihadiste. Il secondo “target” del leader russo è una qualche forma di salvataggio (anche in previsione di un Paese smembrato) del suo protetto locale Bashar El Assad, il principale responsabile della mattanza siriana, a cui chiede “ragionevolezza e flessibilità”, ma che ritiene partner indispensabile nella lotta al neo-califfato: è del resto il clan degli Assad che garantisce alla Russia le uniche basi, navale e aerea, in Vicino Oriente, lungo le coste del Mediterraneo, l’accesso ai “mari caldi” sempre agognato dai vari imperialismi moscoviti. Per la sopravvivenza dell’impresentabile alleato, o di suoi “degni eredi”, i caccia russi non bersagliano unicamente le posizioni dell’Isis, ma anche i santuari della variegata guerriglia sunnita anti-regime, che negli ultimi mesi si era riorganizzata e consolidata grazie soprattutto all’aiuto dell’Arabia Saudita. Infine, c’è il chiaro proposito della Russia di proporsi come competitore e alternativa degli Stati Uniti nella regione in cui vecchie e nuove oligarchie arabe conservatrici guardano con timore al disimpegno americano dalla regione (di cui Obama è fautore dopo i disastri dell’intervento militare in Iraq e in Afghanistan), quindi alla possibile fine di quello “scudo stellato” che per decenni ne ha garantito la protezione e la sopravvivenza in cambio di stabilità e petrolio, sopravvivenza solo brevemente minacciata dalle “primavere arabe”. Dunque, quella che è stata e rimane anche una guerra per procura (con le potenze esterne interessate e partecipi a fianco dei contrapposti schieramenti) registra la mossa russa, ancora incerta nei suoi sviluppi, e nel suo esito finale. Mentre è comunque evidente il paradosso: sono molte le responsabilità occidentali (lontane e vicine) nello sciagurato sconquasso che ha favorito la nascita dello Stato islamico; ma il principale responsabile della carneficina siriana è Assad, tenacemente sostenuto da Putin. Fino a ieri, entrambi erano parte fondamentale del problema. Oggi si propongono come la soluzione. I nuovi “pacificatori”, dopo essere stati uno il carnefice e l’altro il suo volonteroso complice.

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