L'analisi

Missione incompiuta

29 dicembre 2014
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di Aldo Sofia - In tredici anni, la guerra d’Afghanistan è costata alla Nato (in grandissima parte agli Stati Uniti) almeno mille miliardi di dollari. Il bilancio dei soldati della coalizione morti è più preciso: 3’483 i caduti. Quello delle vittime civili è invece assai sommario. Di sicuro, alcune decine di migliaia.
Un ultimo allarmante rapporto delle Nazioni Unite parla di un aumento del 14 per cento dei morti civili durante il solo 2014, anno in cui sono triplicate le “vittime amiche” dei bombardamenti con i droni.
Sul piano politico, poi, per la proclamazione del nuovo capo dello Stato, Ashraf Ghani, sono stati necessari ben sette mesi di trattative e una “intensa attività diplomatica statunitense”, al termine di una consultazione che, secondo alcuni osservatori, ha registrato brogli in quantità industriali. Immaginiamo quale possa essere la sua legittimità interna e internazionale.
Dunque, nel giorno in cui la coalizione internazionale procedeva alla cerimonia dell’ammainabandiera, l’Afghanistan non poteva certamente dirsi un Paese pacificato.
La costruzione dello Stato rimane una chimera, le fratture etniche continuano a condizionare il presente e il futuro del Paese, la modernizzazione democratica è aleatoria (sempre l’Onu segnala che si aspettano ancora leggi per la tutela della condizione femminile, mentre “l’80 per cento delle donne subisce violenze nella loro vita quotidiana”).
Infine, se è vero che l’enorme sforzo militare ha impedito che l’Afghanistan diventasse il santuario permanente e virale di al Qaida, è anche vero che coloro che ospitarono le basi di Osama bin Laden, cioè i talebani, non sono affatto sconfitti. Il loro credo islamista si è radicalizzato, e potrebbero alimentare a lungo e con esiti incerti una nuova, lunga, sanguinosa guerra civile.
Se questa non è una sconfitta politico-militare degli Stati Uniti e dei loro alleati, non si saprebbe come altro definirla. È difficile pensare che l’esercito afghano (pur affiancato da 12mila soldati americani incaricati della loro formazione) non rischi di fare la stessa fine di quello iracheno, indebolito dall’emorragia di diserzioni e spappolatosi alla prima vera prova del fuoco, l’offensiva del Nuovo Califfato.
E nemmeno si può dare per scontato il buon esito della trattativa con i talebani che il nuovo “uomo di Washington” – tale è anche il neo-capo dello Stato, Ghani – ha cercato immediatamente di avviare: ci aveva inutilmente provato anche il suo predecessore Karzai, che pur di rendersi credibile agli occhi dei ribelli, era diventato il più aspro critico dei suoi ex protettori statunitensi.
L’Afghanistan lasciato inevitabilmente a se stesso (pur con i cinque miliardi di dollari all’anno promessi al suo esercito fino al 2017); preda dei suoi fantasmi e delle sue divisioni; teatro di vari interessi esterni (soprattutto quelli di un Pakistan, sempre ambiguo nella lotta ai talebani, che ha spesso usato per i suoi calcoli regionali); questo Afghanistan rischia di allargare ancor più il “buco nero” di tensioni, conflitti, estremismi islamici, decomposizione statale, lotta per nuovi confini in cui è precipitata l’intera regione.
Una micidiale e contagiosa logica del domino. Toccava al generale americano John Campbell, presiedere ieri a Kabul la cerimonia dell’ammainabandiera della Nato. I dettagli sull’ora e sul luogo dell’evento non erano stati preventivamente diffusi. Per paura di attacchi terroristici. Poteva esserci qualcosa di più simbolico per ammettere il senso di una missione incompiuta?

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