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I profughi afghani tra emozione e cinismo

Ci emozionano le immagini dell’aeroporto di Kabul. Ma poi? Poi gran parte dell’Europa, Svizzera compresa, non sa che farsene di chi fugge

(Keystone)
24 agosto 2021
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Ci emozionano – ancora per quanto? – le immagini dall’aeroporto di Kabul, migliaia di disperati in vana attesa di un aereo cargo in partenza, e quei bambini sollevati sopra il filo spinato sperando in qualche mano pietosa di marines. Ci commuove il terrore di chi racconta la paura di ripiombare nel regno della dittatura talebana. Ci indigna la sconfitta anche morale di un Occidente che disastrosamente si lascia alle spalle due decenni di vere o false promesse democratiche. Ma poi? Poi gran parte dell’Europa, Svizzera compresa, non sa che farsene dei profughi afghani. Anzi, lo sa benissimo. Visto che ora non è possibile ‘aiutarli a casa loro’ (mantra di un menefreghismo di lunga data) si inaugura la stagione dell’‘aiutiamoli vicino a casa loro’, nei Paesi confinanti che dovrebbero sopportare il maggior numero dei fuggiaschi. Il Pakistan per esempio, che ne ha già milioni lungo le sue porose frontiere con l’Afghanistan. O l’Iran, dove i rifugiati afghani sono trattati come ultimi fra gli ultimi, costretti ai lavori più umili e malpagati. Magari la Turchia, che però ha già fatto sapere di non volerne, già incassa assegni miliardari per tenersi i siriani, e non vuole irritare i ritrovati padroni di Kabul. Figurarsi la Cina islamofobica che schiavizza gli uiguri.

E, allora, perché dovremmo prenderceli proprio noi? Il Consiglio federale manda alle ortiche l’orgoglio della sua ‘tradizione umanitaria’; subito avverte che non accoglierà gruppi di fuggiaschi; fa orecchie da mercante nei confronti di tre città che offrono la loro disponibilità a una più generosa accoglienza (Zurigo, Berna, Ginevra). Si esibisce fermissima preoccupazione per i pericoli umanitari, e lacrime asciuttissime. Solidarietà a parole, cinismo nei fatti. Si deve così ricorrere a una raccolta nazionale di firme per tentare di scuotere la calcolata passività bernese. Del resto, dal vecchio continente gli afghani in cerca di rifugio già venivano spesso costretti al rimpatrio. Dopo la pausa causa Covid, da dicembre scorso, s’è ripreso con le espulsioni. In Svizzera, il giorno prima della caduta di Kabul, c’erano 2’800 afghani in attesa di risposta per la richiesta d’asilo, ma 130 erano già sulle liste del ritorno obbligato nell’Afghanistan per loro, per i fuggiaschi, considerato sicuro. Una palese menzogna: oltre il 70% del territorio era già nelle mani degli ‘studenti coranici’, e infatti sull’apposito sito dei vari Ministeri degli esteri europei si raccomandava di non recarsi in Afghanistan, Paese a rischio. Così fino alla presa di Kabul, quando i rimpatri sono stati sospesi (ma ‘temporaneamente’, per carità).

C’è tutto questo dietro la politica dell’automatica indignazione politica, dei moniti altisonanti, delle vuote raccomandazioni. Stavamo costruendo uno Stato libero e non potevano essere dei disperati fuggiaschi a rovinarci l’immaginaria narrazione. Quindi che se ne tornassero da dove erano venuti. Del resto, facciamo un’ipotesi. Immaginiamo che l’America e i suoi alleati ci avessero risparmiato questa vergogna, organizzato un ritiro ordinato, e trasferito nei loro Paesi anche più di centomila fra collaboratori di ambasciata, personale delle Ong, donne impegnate nella scuola, nel sociale o nell’informazione. Alla scadenza del 31 agosto, data ultima concordata col nemico per l’evacuazione, cosa sarebbe accaduto? Non avremmo assistito alla stessa disperazione, allo stesso caos, allo stesso terrore? Ma la retorica fa sempre comodo alla politica, quando c’è poco altro.

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