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Città ‘moribonde’ e città moderne, che attirano i giovani

Mentre la turistica Lugano vede calare abitanti e attrattività, altre città svizzere raccolgono i frutti culturali di autogestioni giovanili riuscite

A volte è una questione di porte aperte o chiuse

Ogni città si nutre di diversità, l’humus ideale per innovazioni ma anche per accesi conflitti, perché quello che sta bene ad uno può disturbare l’altro. Convivono differenti modi di pensare, diverse religioni ed etnie, ogni generazione ha le sue esigenze. La forza di una città è saper integrare le diversità, senza puntare su un asfittico modello unico, traendo il meglio per l’intera comunità con uno sguardo lungimirante. Mentre la turistica Lugano vede calare gli abitanti, aumentare lo sfitto e non ha certo la nomea di città tollerante (dopo che le ruspe hanno demolito l’ex Macello), altre città come Zurigo o Berna hanno saputo, con molta pazienza e tanta mediazione, lasciar fiorire queste realtà giovanili autonome. Oggi raccolgono i frutti, come raccontiamo in due reportage dal cuore di due esperienze riuscite di autogestione a Berna e Zurigo (vedi laRegione del 16.6.2021).

La Rote Fabrik ha fatto le sue violente battaglie, ma sostenuta dalla città ha poi saputo trasformare la furia della contestazione in innovazione, diventando uno dei più grandi centri culturali multidisciplinari d’Europa. Oggi è un fiore all’occhiello dell’offerta culturale di una città moderna. Rimanere attrattivi significa anche lasciar scorrere la linfa giovanile nel tessuto urbano. «Sono i giovani e non certo il banchiere 50enne, il motore per una città che vuole essere innovativa. Lugano assomiglia sempre più a una Disney morente», commentava su questo giornale settimana scorsa il sociologo Sandro Cattacin. Non lo auguriamo certo a Lugano, ma si può fare meglio per integrare realtà giovanili, che i sociologi definiscono importanti laboratori sociali di vita urbana. Ci appare quantomeno anacronistica, in un periodo storico che valorizza le diversità, la politica luganese che non solo non riesce a dialogare con un interlocutore non facile, ma addirittura ne reprime brutalmente la forma d’espressione.

L’esercizio è fattibile anche se non semplice, come mostra l’esperienza di Berna, che ha saputo gestire, con alti e bassi, il delicato equilibrio tra vincolare contrattualmente il centro autogestito Reitschule senza spegnerne la vivacità, l’esuberanza di chi non accetta nulla tanto facilmente, ma produce modi diversi di fare cultura e nuove formule di vita urbana. «Qui si deve poter vivere in modo diverso dal resto della società», spiega l’attivista Reto. Più volte la destra ha cercato di demolire la Reitschule ma i bernesi si sono sempre opposti in votazione (ci chiediamo: i luganesi farebbero altrettanto?). Di generazione in generazione, nonni e nipoti ne frequentano ristorante, cinema, teatro, bar. Nonostante reiterati episodi di violenza, i bernesi hanno sempre difeso questa oasi anarchica di sperimentazione, amministrata autonomamente. La città ha scelto un rispettoso dialogo costruttivo, arrivando a negoziare un contratto che definisce limiti e responsabilità. Una politica più repressiva avrebbe spostato (ma non risolto) la scena alternativa; sovvenzioni troppo alte ne avrebbero stravolto l’identità, originando contromovimenti di squatter. I conflitti a Berna sono piuttosto con la polizia. Davanti alla Reitschule c’è un parcheggio, una sorta di ‘drive-in’ degli stupefacenti, che è ben frequentato. Ma la droga è un problema dei centri autogestiti o della nostra società?

 

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