Commento

Il giorno della marmotta e quelli della pandemia

Non se ne vede la fine. Significano questo, al netto di numeri indicatori e tassi, le decisioni sul prolungamento delle chiusure

(Columbia Pictures)
19 marzo 2021
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Non se ne vede la fine. Significano questo, al netto di numeri indicatori e tassi, le decisioni sul prolungamento delle chiusure comunicate oggi dal Consiglio federale. Una scelta tutto sommato prevedibile e opportuna, perfino inevitabile coi contagi che risalgono e il timore che le nuove varianti del coronavirus siano ancora più letali. Abbiamo visto prima di Natale quanto ci è voluto per richiudere, nonostante le impennate esorbitanti di morti e contagiati, e oggi nei Paesi che ci circondano le restrizioni sono ancora più severe che qui. Sicché l’esecutivo di Berna fa bene a stare dalla parte dei bottoni; impegolarsi in un apri-e-chiudi farebbe più male che bene, anche a chi deve pianificare cosa fare con la sua attività. Riaprire per Pasqua avrebbe poi significato un liberi tutti: è pretestuoso negarlo aggrappandosi alla “responsabilità individuale”, concetto altissimo dirottato proprio dagli irresponsabili: certe situazioni d’incontro e di scambio agevolano la diffusione del virus anche tra mille attenzioni, lo abbiamo già visto succedere. Certo, la maggior parte dei Cantoni e i leoncini di casa nostra chiedevano a gran voce e a cuor leggero gli allentamenti: ma è facile assecondare a parole certi malumori quando a decidere è qualcun altro. Armiamoci e partite, che coraggio.

Lo diciamo anche se nessuno “vuole” il lockdown – come pretende una narrazione da fanatici del noi-contro-loro –, anzi: viene il magone di fronte all’ennesimo dilatarsi di questo tempo sospeso. Abbiamo tutti accanto qualcuno che ormai non ce la fa più, e a volte quel qualcuno siamo proprio noi. “Sentinella, quanto resta della notte?”, chiedeva un poveretto nel Libro di Isaia. E chi lo sa. Passato un anno intero ci si mette anche il déjà-vu stagionale, sembra di stare in quel film con Bill Murray costretto a rivivere continuamente la stessa giornata, il giorno della marmotta.

“Cheppalle dover scrivere sempre le stesse notizie, parlare sempre delle stesse cose”, ci diciamo spesso in redazione. Ma almeno noi un lavoro, qualcosa da fare ce l’abbiamo. Va sicuramente peggio ai ristoratori, ai cuochi e ai camerieri costretti a stare col forno spento e le mani in mano, a chi vorrebbe suonare o recitare o giocare davanti a un pubblico, e invece non può. Troppi esempi d’indennità inadeguate rendono ancora più spinosa quell’attesa, e poi c’è l’elefante nella stanza: non tutti costoro avranno un lavoro, tra qualche mese, specie se al primo allentamento si tornerà a salmodiare l’inno austerista che ci perseguita da anni. Chiusi si deve rimanere, insomma, ma questo non significa ignorare la rabbia e il “gran rincrescere” di chi non può lavorare, foss’anche solo perché noi tutti vorremmo tanto uscire per una pizza o un concerto.

Intanto ci vuol pazienza, ci ripetiamo, con l’unico risultato di spazientirci l’un l’altro ancora di più, come quando dici a un bimbo di non grattarsi. Un anno fa era tutto nuovo, eravamo più spaventati che annoiati, speravamo perfino che da questa storia saremmo usciti tutti migliori. Chissà. Intanto le nostre parole “si sfarinano come funghi marci” – scomodiamo anche Von Hofmannsthal, botta di vita – in questo ennesimo commento all’ennesima attesa di un ennesimo chissà. Però, sul serio, ci vuol pazienza.

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