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Federer, è come se non ci fossimo mai lasciati

Benché segnato dalla sconfitta di ieri contro Basilashvili, il rientro del basilese può dirsi riuscito, E c'è ancora molto da vedere

12 marzo 2021
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Riuscire a non smentirsi, a restare fedeli a se stessi, è una virtù. Così come lo è rientrare dopo 13 mesi di assenza, due operazioni al ginocchio e quasi quaranta candeline su una torta ormai illuminata a giorno, e fare una figura degna del fuoriclasse che non ha mai smesso di essere tale. Roger Federer si è definito con grande semplicità uno “vecchia scuola”. Uno che dopo una partita faticosa non fa nulla di che, se non lo stretching, massaggi e una bella dormita. Nessuna alchimia particolare. Solo recupero e riposo, la ricetta dello sportivo. Di qualsivoglia sportivo, anche quello “della domenica”, sempre ammesso che gli interessi recuperare dagli sforzi profusi.

Ha ammesso di faticare ad abituarsi a una realtà dalla quale è rimasto lontano per più di un anno. Tredici mesi in cui anche il tennis, il suo tennis, è stato stravolto, ribaltato. Lo abbiamo riabbracciato, figliol prodigo un po’ spaesato, ma felice di essere tornato. Contento lui, che a quel mondo appartiene per averlo ridefinito. Beati noi, gli appassionati e gli addetti ai lavori, che possiamo continuare a raccontarne le gesta, a viverne la spensieratezza, a godere della sua voglia di semplicemente giocare a tennis, ad applaudire colpi che è stato un piacere per gli occhi e per il cuore rivedere eseguiti dal più bello tra i giocatori in circolazione (e di sempre), nel senso dell’estetica del suo tennis.

Come non averlo mai perso

A prescindere dalla vittoria (di mercoledì) o dalla sconfitta (di ieri), tappe dalla contenuta importanza lungo un percorso che lo deve condurre in forze e in fiducia all'appuntamento con il giardino di casa di Wimbledon, è come se non lo avessimo mai perso. Pur sapendo, oggi, che il rischio di doverci congedare dal suo modo unico di elargire e intendere tennis lo abbiamo corso, per quella seconda operazione al ginocchio non prevista e così gravida di conseguenze. Tuttavia ha prevalso la sua voglia di rimettersi in gioco, di non mollare la presa, perché ha ancora qualcosa da dare. Siamo sempre lì, in definitiva: alle motivazioni, al fuoco sacro. Quello di Federer arde ancora, nonostante l’anagrafe si faccia impietosa e gli tolga molte delle possibilità che il suo tennis infinito gli concede, sul piano tecnico, di aggiungere l’ennesima perla a una collana che darebbe fastidio al collo di chiunque, per il peso e a lucentezza che ha.

Il suo percorso non è ancora terminato e rivendica il diritto di ribadircelo. Lo ha già fatto, a ben vedere. È tornato in campo sorretto da un tennis ovviamente da registrare, benché non scalfito né dall’età non più verdissima (in tinta con i pantaloncini del match d’esordio contro Evans), né dalla lunga assenza durante la quale sono stati di più i mesi senza la racchetta che quelli con. Certo, un po’ di ruggine superficiale la deve grattare via. La polvere si posa sulle superfici appena lo straccio finisce di accarezzarle, volete che più di un anno senza partite non lasci il segno? Dopo tredici mesi di stop e un mesetto di stampelle, anche il più baldo dei “millenials” avrebbe dovuto ricominciare daccapo, figurarsi il decano del circuito che si appresta a sfondare il muro degli “anta” oltre il quale la strada è in salita (posto che con quella pensione lì, l’ascesa è meno erta). Resta però la piacevole sensazione che poco o nulla sia cambiato, come se nulla fosse successo. Al netto di una reattività da ritrovare, di una brillantezza atletica alla quale lavorare, e ci mancherebbe pure (l’affanno, contro Basilashvili, si è notato eccome).

Un anno fa? Non ci credo

“Dove ci eravamo lasciati, già? Melbourne 2020, la semifinale persa contro Djokovic? Tredici mesi fa? Non ci credo. Sembra ieri”. Qualcosa del genere, a parole. La sensazione è davvero quella. Era il 30 gennaio 2020, quando ci privammo della sua arte. Il mondo era ancora in piedi. Ora che è capovolto, Federer ha l’ardire di tornare, di riproporsi più o meno sui livelli di sempre, al netto di una preparazione giocoforza parziale. È come se il tempo per lui si fosse fermato, per aspettarlo. Invece ne è passato tanto da proiettarci in un'altra dimensione, forse temporanea, ma duratura e inquietante proprio per gli interrogativi che solleva.

Ha fatto sorridere, la sua genuina “impreparazione” ai protocolli rivisti e corretti. Ci si deve abituare, ammette lui, sedicente “vecchia scuola” (ma ha ragione da vendere nel considerarsi tale). Lo farà, anche passando attraverso un paio di sconfitte che gli ricordano quanto dista dal miglior Federer, pur avendone già le fattezze e qualche genialata. Del resto, ha scelto lui di continuare, per amor proprio e per rispondere a un’esigenza personale (alla pensione di cui sopra ha già provveduto da tempo), per la gioia di chi ama il tennis. 

Forse ci possiamo abituare a mascherine e distanziamento, così come lui ora sa che se vuole detergere il sudore dal viso, l'asciugamano se lo deve andare a prendere da solo perché non glielo portano più. Al tennis senza Federer, per contro, non ci abitueremo mai. Che perda o che vinca, a questo assioma non si sfugge.

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