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A questo punto misure più severe sono doverose

La Svizzera arriva tardi e male alla gestione della seconda ondata. E il vaccino non è un’alternativa alle restrizioni previste

Va così (Keystone)
18 dicembre 2020
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Sarà che ormai la paura si è sgonfiata in sfiancamento. Che sulle preoccupazioni per la salute hanno preso il sopravvento quelle per l’economia, anche se non può essere una nazione di malati a risanarla. Sarà anche che dopo la prima ondata pensavamo di aver fatto il compitino meglio di tutti, come dimostra un’estate più rilassata che altrove. Fatto sta che arriviamo alla fine di quest’anno con un bilancio di contagi e di morti disastroso, rispetto al resto d’Europa e perfino rispetto all’America. A questo punto un inasprimento delle contromisure appare scontato e auspicabile.

Attenzione: non è che ci sia chi un qualche tipo di lockdown ‘lo vuole’ e chi ‘non lo vuole’, come da distorta narrazione collettiva. Nessuno lo vorrebbe, solo che appare necessario. Risulta difficile sostenere il contrario, a meno che non si intendano screditare completamente i numeri, gli appelli degli ospedali e della task force scientifica federale. Lockdown, poi, è un termine che può avere molti significati: da quanto è trapelato già ieri sera, Berna propenderebbe per una versione alquanto porosa. Oggi capiremo meglio fino a che punto, dopo mesi di confusione e di passi fatti a metà e di lato, arriveranno regole coerenti, chiare e commisurate alle condizioni sul territorio, come chiare devono essere le garanzie di credito e indennizzo.

Non siamo certo arrivati in anticipo, nonostante al caveat dei virologi si siano aggiunte già da un mese le osservazioni d’una cinquantina di economisti: tra economia e salute, scrivevano al Consiglio federale, “in realtà non esiste alcun ‘trade-off’. La vera scelta è piuttosto tra una profonda recessione, con ospedali inondati di pazienti e numerose morti in eccesso se si continuassero le politiche attuali, oppure una profonda recessione con un numero di morti inferiore, e un sistema sanitario in grado di gestire la situazione, se venisse introdotto un secondo lockdown”. Non solo gli interessi delle industrie più potenti, ma anche i timori del ristoratore, del libero professionista e del semplice impiegato hanno frenato a lungo le scelte federali e locali. Comprensibile, se non altro.

Meno comprensibile è stata invece una discussione politica e mediatica a tratti surreale, dove agli sciroccati veri e propri si sono nuovamente affiancati quelli che “è solo un’influenza”, oltre a chi confonde la libertà personale con la mancanza di responsabilità nei confronti di quella altrui (gli stessi che ora straparlano di vaccino come panacea alternativa alle restrizioni). Proprio ‘responsabilità’, paradossalmente, è stata la parola d’ordine dei mesi scorsi, il monito rivolto con sguardo corrucciato a ciascuno di noi. Fingendo che bastasse questa parola d‘ordine per buttare la palla in tribuna e lasciare aperti bar, bettole, perfino mercatini di Natale senza troppi rischi.

Adesso, a quanto pare, la maschera è caduta. Si spera che le nuove regole si dimostrino coerenti, capaci di lenire la pandemia e anche l‘incertezza vissuta finora. Perché d‘accordo, questa è una situazione già incerta di suo; ma non hanno di certo aiutato il tira-e-molla tra Confederazione e cantoni, le filippiche ipocrite sul federalismo tradito e la più prosaica tendenza a scaricare su qualcun altro la responsabilità di scelte scomode. Intanto buone feste, e speriamo bene. O almeno benino.

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