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La comunicazione durante il lockdown: luci e ombre

Un sondaggio Ustat mostra l'efficacia dell'informazione ‘unificata’ sotto lo Stato maggiore cantonale. Ma anche una critica è doverosa

(Ti-Press)
19 novembre 2020
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Sembra un secolo fa, era l’altroieri. Era arrivata la prima ondata del virus che all’inizio avevamo preso un po’ tutti alla leggera, e quasi da un giorno all’altro molti si sono ritrovati blindati in casa, con quell’incertezza – quella paura, certe volte – che non permettevano nemmeno di godersi il divano. Al posto dei bollettini di Radio Londra c’erano le conferenze stampa dello Stato maggiore cantonale di condotta, nome marziale che però, all’epoca, suonava rassicurante. Lo dimostrano i dati di un sondaggio affidato all’Ufficio di statistica, del quale trovate quihttps://cms.laregione.ch/?app=cms&edit=contents&id=contents_1475337 una sinossi. In breve: vi si leggono giudizi molto lusinghieri sulla comunicazione del Consiglio di Stato e del medico cantonale durante la prima fase della crisi.

Noi quell’esperienza l’abbiamo vissuta dalla redazione, tra l’incudine del governo e il martello di lettori pronti a vederci come traditori in caso di critiche giudicate troppo aspre (e sì che di solito chi lavora nei media si sente dare più spesso del ‘servo del potere’). Per quanto giudicare col senno di poi sia un esercizio che rischia di scadere nell’autocompiacimento, o peggio ancora nell’autocommiserazione, potremmo aggiungere al sondaggio un paio d’osservazioni più sfumate.

Intanto, è effettivamente fondamentale che in un momento d’estrema crisi la comunicazione pubblica sia coordinata nel modo più unitario possibile: il successo delle misure prese è passato anche da una loro trasmissione pulita e coerente; insieme a disinfettanti e distanze sociali servono (anche) le parole. Le ultime settimane ce ne forniscono una controprova: un parlare sfilacciato, a tratti incoerente, con goffi inciampi com’è successo per il numero di persone ammesse agli eventi culturali. Questo proprio ora che una popolazione stanca, meno spaventata dall’ignoto sanitario e più da quello economico, pare anche meno avvezza a ‘stringersi a coorte’ attorno all’esecutivo.

Però è anche vero che la soluzione adottata in primavera ha mostrato i suoi limiti: quelli di un’informazione centralizzata nelle mani della Polizia, con un cordone di giornalisti del servizio pubblico ‘embedded’, e tutti gli altri tenuti a distanza da procedure di contatto e revisione rigide e macchinose (all’inizio non si poteva nemmeno presenziare alle conferenze stampa). Sia chiaro: non è stata una dittatura comunicativa, molte persone anche ‘a palazzo’ si son fatte in quattro per aiutarci, e non era facile trovare il giusto equilibrio. Come dritta per il futuro notiamo però come alcune viti si siano strette fin troppo; e come questo abbia rallentato soprattutto chi cercava di sapere per spiegare, per spaginare le cose in modo trasparente davanti ai lettori. Chi invece voleva far casino, raccogliere le voci di corridoio e i ‘noncelodicono’, l’opinione dei Dulcamara che “è solo un’influenzina”, titillando la mania di protagonismo di certe mezze tacche, lo ha fatto durante il lockdown esattamente come continua a farlo ora, e basta guardarsi attorno.

Dal sondaggio emerge infine che i media hanno comunque avuto un ruolo centrale: da lì si passava per conoscere, per capire. Chissà che non sia servito anche a comprendere meglio che non siamo solo imbrattacarte, con o senza emergenze; e che no, la pagina social gratuita di miocuggino non è un buon sostituto. Ma non cantiamocela troppo. Piuttosto teniamo duro, noi e voi.

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