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Un pasticcio comunicativo evitabile

Il consiglio di Stato non appare più unito in materia di gestione della crisi sanitaria

(foto Ti-Press)
11 novembre 2020
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Il governo ticinese non è uscito bene dal pasticcio comunicativo del fine settimana, nonostante il cerotto di Manuele Bertoli messo due giorni dopo i fatti. Sono stati letteralmente dati i numeri: prima 50, poi 5, per risalire a 30, parlando del pubblico ammesso in teatri e cinema. Non che 30 o 50 persone cambino le sorti di un settore segnato da mesi magri, ma per la scena culturale minore fanno la differenza tra una flebile prospettiva di sopravvivenza e il fallimento certo. Disturba inoltre il fatto di considerare la cultura un bene superfluo e quindi sacrificabile, dimenticando il suo ruolo di genere di conforto sociale e anche economico. Già domenica, durante la conferenza stampa, il presidente di turno del consiglio di Stato Norman Gobbi in entrata aveva precisato che le decisioni che si stavano comunicando erano state prese a maggioranza lasciando quindi intendere una spaccatura in seno al collegio tra dirigisti e lassisti in tema di sanità pubblica. Svanita quell’unità che durante la prima ondata veniva sbandierata come balsamico alle paure che comunque serpeggiavano nella società confrontata per la prima volta, almeno in tempi recenti, a una crisi di portata storica: timori per la perdita del posto di lavoro, genitori trasformati obtorto collo in docenti, paura per un virus potenzialmente letale per tantissime persone care, soprattutto anziani e fragili. Chi non ne ha?

Che stiamo vivendo tempi difficili, è fuor di dubbio. La crisi sanitaria che fino a qualche settimana fa credevamo alle nostre spalle è tornata prepotentemente di attualità. Il numero di ospedalizzazioni cresce e con esse, purtroppo, anche i lutti. La pressione esercitata sul sistema sanitario è tale che il rischio di rottura è elevato, comunque esso sia organizzato e finanziato: le risorse umane, tecniche e finanziarie non sono mai infinite, in nessun Paese. 

Autorità federali e cantonali fin dalla fine della prima ondata di coronavirus hanno sempre affermato di voler evitare un nuovo lockdown delle attività economiche “non fondamentali” - brutta parola - perché non ce lo saremmo potuto permettere. Probabilmente il cortocircuito comunicativo in cui è incappato il consiglio di Stato tra domenica e martedì di questa settimana sta proprio in questo impegno: non chiudere del tutto l’economia, comprese le attività culturali, ma limitare al minimo i contatti sociali per evitare che l’epidemia si propaghi oltre e ingolfi l’intero sistema sanitario che è pensato per operare in altre modalità e curare anche altre patologie che non sono scomparse con il Covid. Sono quindi puerili le critiche di chi si chiede, retoricamente, perché in questi mesi il governo non abbia pensato di aumentare l’organico del personale sanitario o non abbia potenziato i letti acuti e di terapia intensiva ben sapendo che le risorse sono sempre le stesse e che in questo momento sono in gran parte concentrate nel gestire i reparti Covid. Sono gli stessi che poi si indignano per le finanze pubbliche dissestate non da scelte di politica finanziaria errate, ma da una pandemia planetaria che sta cambiando letteralmente pelle a gran parte del sistema economico.

La prospettiva che abbiamo di fronte, di un autunno lungo e triste, non aiuta di per sé a sollevare il morale collettivo. Affrontarlo, in un momento in cui dobbiamo contare gli amichetti con cui giocano in nostri figli e senza la possibilità ‘minima’ di evasione data da un film al cinema o con sale teatrali e da concerto mute, sarebbe stato ancora più triste.

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