Commento

Se il vaccino è geo-strategico

L’ordine da Washington dovrebbe infatti concretizzarsi a ridosso del 3 novembre

7 settembre 2020
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Prepararsi a distribuire, entro fine ottobre o al più tardi a inizio del mese successivo, il vaccino anti-Covid nei cinquanta Stati dell’Unione e in alcune grandi città. Attraverso la competente autorità federale (il ‘Centers for Disease Control and Prevention’), è quanto ha chiesto la Casa Bianca ai responsabili locali. Grande tempismo. E alquanto sospetto. L’ordine da Washington dovrebbe infatti concretizzarsi a ridosso del 3 novembre, giorno del voto per le presidenziali americane. Quale vaccino, prodotto da quale società farmaceutica, testato in che modo e con quali garanzie di sicurezza: su questo si tace. Conta il messaggio. Messaggio politico. Propagandistico. In una campagna elettorale esasperata come mai in passato, entrano naturalmente in gioco anche il virus, i suoi effetti, le vittime, lo sconquasso economico. E Donald Trump, accusato a ragione dal rivale democratico Biden di una gestione disinvolta e disastrosa dell’emergenza sanitaria, dopo essersi vantato alla Convention repubblicana di aver gestito alla grande la pandemia con risultati eccezionali (nonostante i quasi duecentomila morti, finora), sfodera “l’arma assoluta”, quella dell’antidoto praticamente a portata di mano. Naturalmente all’insegna del “First America”, come quando tentò (bloccato dalla Merkel) di ottenere in esclusiva per i cittadini statunitensi un possibile ritrovato anti-virus di produzione tedesca. Stessa cosa per un vaccino in fase di sperimentazione da parte di una società di proprietà francese (con immediato veto di Macron).

Del resto questa brutta e vergognosa pagina della corsa al vaccino come strumento del conflitto politico ha assunto proporzioni internazionali. Come se dovesse avere valenza geo-strategica. Segnare un passo decisivo in fatto di supremazia mondiale. Si va ben oltre una questione accettabile e comprensibile di prestigio. Una logica che sembra coinvolgere la “troika” delle potenze (vere e presunte) del pianeta. Già in primavera (e forse presa dalla volontà di alleggerire le proprie responsabilità), la Cina fu la prima a garantire di aver impresso una decisiva e promettente accelerazione alla ricerca del vaccino. A metà agosto, è la volta di Putin, che annuncia la scoperta di un efficace farmaco anti-Covid, già sperimentato su una delle sue figlie, a cui non a caso viene dato il nome di “Sputnik V”, come il primo satellite spaziale mandato in orbita attorno alla Terra nell’ottobre del ‘57, presunto simbolo della superiorità sovietica nella gara con gli umiliati Stati Uniti. E ora il tempestivo e teorico ottimismo elettorale di Trump.

I costi elevati della ricerca sono indiscutibili. Ma, al di là della logica del grande profitto (anch’essa discutibile per un prodotto che dovrebbe essere considerato innanzitutto un bene per l’umanità), è questo “primanostrismo-sovranista” a dare il voltastomaco. Da una parte, il discredito che colpisce (anche al di là dei suoi demeriti) l’Organizzazione Mondiale della Sanità, e dall’altra la crisi del multilateralismo (vittima anche della politica trumpiana del rapporto di forza) sembrano rendere impossibile la ricerca e un comune finanziamento pubblico degli Stati, come avvenne nell’immediato dopoguerra per il vaccino influenzale. Così, l’antidoto tanto atteso potrebbe creare nuovi fossati, nuove discriminazioni, fra chi ne potrà beneficiare subito e chi dovrà attendere, chissà quanto. Altro che “il mondo migliore” vagheggiato nei giorni del dolore e della grande paura.

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