Commento

L'allerta da Covid-19 e la sindrome della capanna

C'è chi nega la pandemia e fa finta che il virus non esiste più per tornare alla normalità e chi invece fatica ad uscire di casa, percepita come un rifugio

foto keystone
11 maggio 2020
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C’è chi lo nega, fa finta che non esiste. Un esempio è Donald Trump. All’inizio il Covid-19 era una semplice influenza, qualche settimana fa lo voleva sconfiggere con iniezioni di disinfettante, ultimamente ha deciso che l’economia deve ripartire anche a costo di migliaia di morti. Il Covid-19 non si vede, ma esiste. Alcuni lo rimuovono, sperando che così scompaia per magia. Altri invece, ora che si riparte, si sentono persi, non uscirebbero più dal nido sicuro, che è diventata la loro casa. Questo virus ci è entrato nella testa, popola i sogni, ci obbliga a convivere con un costate fastidioso stato di allerta interno e ciascuno reagisce a modo suo. In poche settimane ci siamo abituati all’impensabile: far la spesa a turno, rinunciare al funerale di un caro, vedere stadi e scuole chiusi, voli cancellati dalla sera alla mattina, frontiere sbarrate, mobilità ridotta a zero, nuove App che tracciano i nostri spostamenti, lavoro da casa per chi ce l’ha ancora. Oggi si torna ad una parvenza di normalità, anche se il virus è sempre pronto a infettarci e passare al prossimo.

Al supermercato tanti non tengono più le distanze e sono senza mascherine

I cambiamenti sono stati veloci, per alcuni troppo frettolosi. Solo un mese fa, entrare in un supermercato era quasi surreale, lunghe code fuori, dentro tutti si muovevano in silenzio tra sguardi intimoriti, sorrisi spenti da ampie mascherine. Una settimana fa Berna ha deciso di allentare le misure e c’è stato un generale ‘liberi tutti’. Mentre i reparti Covid-19 in Ticino erano ancora pieni, fuori la vigilanza già calava. Mi sono stupita, qualche giorno fa, di vedere in un supermercato che pochi avevano la mascherina, malgrado la difficoltà di tenere le distanze. Mentre sceglievo delle mele, c’era chi mi arrivava frettolosamente da destra e da sinistra, noncuranti delle distanze da tenere, anche alla cassa. ‘Quanto egoismo! Quante persone devono ancora morire...’. È stato il primo pensiero, ma forse la questione è più complicata. Per alcuni ‘rimuovere’ il problema Covid-19 è una sorta di medicina, un modo per tornare artificiosamente a sentirsi normali, a scansare quel senso di insicurezza costante, che ci è maturato dentro. Quanto si può vivere tappati in casa, soprattutto in piccoli appartamenti, senza poter portare i bimbi al parco giochi. Al primo cenno di allentamento, l’attenzione è calata rapidamente ed è esplosa la frustrazione. Sabato centinaia di giovani, anziani, mamme con bambini sono scesi in varie piazze svizzere a manifestare contro le restrizioni delle libertà individuali. Sono una minoranza rumorosa, che va comunque considerata. La maggioranza silenziosa ha saputo mettere da parte l’egoismo per il bene collettivo, per proteggere i più deboli tra noi.

Eccola la sindrome della capanna 

Oggi riaprono negozi, bar, ristoranti. Siamo figli della società del fare frenetico, abbiamo dovuto malvolentieri rallentare di botto, ora possiamo uscire dal confinamento forzato. Eppure, c’è chi fatica a uscire. Il 62% dei ticinesi (secondo un sondaggio SSR) trova frettolosa la riapertura di ristoranti, negozi e scuole. Malgrado lo stress iniziale, c’è chi ha trasformato il confinamento forzato in tempo guadagnato per se stessi, per la famiglia, per gli hobby. Ora il ritorno alla normalità genera più stress. La chiamano la sindrome della capanna. Nell’insicurezza generale la casa è diventata l’unico luogo dove ci si sente protetti. Ci adatteremo di nuovo, in questo stiamo diventando campioni.

 

 

 

 


 

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