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Sognare una pizza è ancora lecito, riaprire subito no

È normale immaginare una exit strategy dalla crisi determinata dal coronavirus. Forzare i tempi sarebbe comunque sbagliato anche economicamente

Ristoranti vuoti ancora per un po' (Ti-Press)

Dopo quasi un mese di blocco di gran parte delle attività produttive definite con un eufemismo ‘non essenziali’, c’è voglia di tornare al più presto alla normalità. È un desiderio logico e naturale: l’uomo è un animale sociale che ha bisogno di interagire anche fisicamente con gli altri esseri umani. Queste settimane, in cui si è stati più o meno forzatamente in casa a barcamenarsi tra i compiti dei figli, il telelavoro, le videoconferenze e tutto ciò che la tecnologia per fortuna mette a disposizione per non essere completamente tagliati fuori dal mondo e dagli affetti, hanno avuto il pregio di trasformare piccoli piaceri della vita in beni anelati. Un caffè al bar, una pizza con la famiglia, una serata al cinema con gli amici, un concerto o anche soltanto immaginare di cambiare il vecchio salotto di casa o acquistare un’auto nuova (tutte attività oggi ritenute ‘non essenziali’) hanno acquistato – complice anche l’inizio di primavera – un sapore particolare, quasi di amaro e nostalgico ricordo. Insomma, a molti questo fermo forzato incomincia a stare stretto ed è umanamente comprensibile.

Una exit strategy, lenta e progressiva finché si vuole, deve essere presa in considerazione anche per delineare quello che sarà il dopo crisi Covid-19. Quale sarà il tessuto economico che ci ritroveremo tra qualche mese? Quale la risposta politica per evitare una deriva sociale? Domande legittime a cui bisognerà dare risposte. È difficile, ma fornire un orizzonte temporale anche vago è necessario per dare un appiglio psicologico a chi è chiamato a fare dei sacrifici. E in questo momento almeno il 40% dei lavoratori ticinesi è in regime di lavoro ridotto che vuol dire – a seconda del grado di occupazione – un taglio salariale fino al 20%. Se è una situazione limitata a due o tre mesi, si stringono i denti. Oltre, sinceramente si farà più fatica. A livello nazionale i dati sono più bassi, ma la situazione occupazionale non è mai stata così precaria, almeno in tempi recenti. Per non parlare delle imprese che rimandano gli investimenti sine die o si concentrano sul presente per non fallire.

Stando a uno degli scenari delineati dalla Segreteria di Stato dell’economia (Seco) la caduta del Pil nel caso di prolungo delle misure restrittive potrebbe essere dell’ordine del 7% quest’anno per poi risalire velocemente (+8%) nel 2021. Questo però se si mettono in campo tutte le misure volte a evitare fallimenti e disoccupazione di massa. In caso contrario (senza intervento massiccio dello Stato), il Pil potrebbe crollare del 10% quest’anno, con una leggera ripresa (+3%) l’anno prossimo e un tasso di disoccupazione fino al 7 per cento.

L’aspetto sanitario e di salute pubblica hanno giustamente la priorità di intervento. Alla attenuazione delle conseguenze economiche, era parso in un primo momento, l’autorità federale aveva risposto in modo molto pragmatico e per una volta poco ideologico. Subito ci si è attivati con le deroghe alla richiesta delle indennità per lavoro ridotto e con un importante volume di crediti bancari in gran parte garantiti dalla Confederazione. Misure volte a evitare una catena di fallimenti, questi sì in grado di peggiorare l’impatto della crisi indotta dalla pandemia. Ora cominciano i distinguo e le pressioni politiche. Il presidente di Economiesuisse, Heinz Karrer, per giustificare uno stop del parziale blocco, ha evocato lo spettro del debito pubblico che graverebbe sulla futura generazione. Ecco, si guarda ancora il dito e non la luna.

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