Commento

L’epidemia, la democrazia e lo stato di necessità

I pieni poteri, e a tempo indeterminato, di Orbán, l’apatia istituzionale in Italia, l’emergenza che non conosce leggi e altre storie di diritti compressi

1 aprile 2020
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Chi avrebbe immaginato che nel giro di qualche settimana le principali democrazie occidentali avrebbero drasticamente ridotto le libertà personali, il tutto senza consultare i parlamenti ma contando su una generica approvazione popolare?
Si tratta di uno scenario inquietante, per quanto certamente giustificato dalla situazione sanitaria, dal dovere di tutelare la salute pubblica dalla pandemia del nuovo coronavirus. Ma se l’emergenza giustifica una compressione dei diritti e un alleggerimento delle tutele istituzionali, il rispetto verso valori come la libertà impone una riflessione sui limiti di questa giustificazione. Soprattutto quando leggiamo di quel che accade in Ungheria, dove in un contesto democratico già precario il premier Viktor Orbán ha ottenuto pieni poteri a tempo indeterminato; ma situazioni preoccupanti le ritroviamo anche in altri Paesi, tra cui l’Italia dove il dibattito sulla legittimità istituzionale pare semplicemente addormentato.
È invece importante ragionare sulla situazione di emergenza in cui governi ed esecutivi si ritrovano ad operare, senza ricorrere alla tentazione di tutto giustificare in nome di “una necessità che non conosce legge”. Argomento antico, che troviamo spesso citato in latino – “Necessitas non habet legem” – anche se la formulazione più nota è forse in tedesco: “Not kennt kein Gebot” furono le parole con cui il cancelliere del Reich Theobald von Bethmann Hollweg giustificò l’invasione del neutrale Belgio durante la Prima guerra mondiale – e certo qui nessuno ha in mente aperte violazioni del diritto internazionale o dei diritti umani, tuttavia se si parla di principi giuridici è meglio guardare oltre l’immediato, appunto perché si sta affermando qualcosa di generale. Perché l’argomento dello stato di necessità che tutto permette si è prestato ad abusi che oggi impongono cautele e tutele. Nel nome dell’emergenza – che cosa debba considerarsi tale è difficile definirlo a priori e spesso il principio è stato interpretato non a tutela della popolazione, ma dello Stato –, si possono giustificare anche le più terribili violazioni dei diritti umani, civili e politici. Per questo si è cercato di porre dei limiti a quel che si può fare in uno stato di emergenza, cercando il giusto equilibro tra diritti e tutela della popolazione. Le restrizioni dei diritti fondamentali – leggiamo dalla Costituzione federale, all’articolo 36 – si giustificano “in caso di pericolo grave, immediato e non altrimenti evitabile” e devono comunque “essere proporzionate allo scopo”. Ancora più chiara la Convenzione europea dei diritti dell’uomo – ratificata dalla Svizzera nel 1974 – che concede deroghe “in caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico” e “nella stretta misura in cui la situazione lo richieda”, indicando peraltro alcuni diritti che non è possibile sospendere, come il diritto alla vita, i divieti di tortura e di schiavitù.
L’elenco potrebbe continuare, ma il punto dovrebbe essere chiaro: anche la necessità ha le sue leggi, per quanto diverse da quelle ordinarie, ed è importante non solo che queste leggi vi siano ma anche che siano il più chiare possibile, in modo da preservare sia la salute della popolazione, sia lo stato di diritto e le libertà che esso tutela. Perché è bene che, anche durante una pandemia, la legittimità delle decisioni non stia solo in una cangiante approvazione popolare.

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