Commento

La solitudine del numero uno

Il campo certifica la grandezza di Novak Djokovic e ne ripaga la caparbietà, ma la sua forza è anche il suo limite. È il più forte ma non il più amato

Keystone
6 febbraio 2020
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Numero uno non si nasce, si diventa. La predisposizione a diventarlo non basta. Né basta il talento, benché resti una componente fondamentale per ambire a primeggiare. Lavoro, disciplina e ancora tanto lavoro. Quando poi sei in cima, si fanno i conti con la popolarità. Con il grado di ammirazione suscitato. Con l’affetto della gente. Solitamente esplode, ma non per tutti.

Novak Djokovic è il numero uno al mondo nel tennis, incoronazione meritata. Il campo ne certifica la grandezza di sportivo, ne ripaga la caparbietà, ne esalta l’orgoglio dell’uomo che prima di assurgere a leggenda della racchetta è stato un bambino cresciuto in un paese complicato, in condizioni difficili. In stenti e difficoltà ha forgiato un carattere duro, a tratti spigoloso. Oggi è la sua forza, ma anche il suo limite. È il più forte, ma non il più amato.

La sua natura conquistatrice ne griffa in maniera indelebile il tennis. Forza di volontà e orgoglio ne hanno fatto un numero uno degno, più forte di tutti. Ha raggiunto la vetta del tennis, con pieno diritto. Ha quasi raggiunto Nadal e Federer, in quanto a Slam vinti. Con ogni probabilità sarà lui a detenere a fine carriera il record di titoli. Tuttavia nel cuore della gente non è mai riuscito a fare breccia come i due suoi illustri colleghi.
Eccolo, il limite. L’esasperata caccia ai record, operazione che porta avanti con successo, lo rendono vincitore, e come tale viene celebrato dallo sport. L’affetto della gente, però, non lo si conquista a suon di titoli. È una questione più empirica, quella. Non sono facili da spiegare, certi meccanismi. Di certo c’è che se Kobe Bryant, per sconfinare nel basket, era così amato, non è solo perché ha vinto con i Lakers. Quelli sono numeri, trofei. L’amore non è statistica, prescinde. Le vittorie contano, parliamo pur sempre di numero uno, ma non sono che una parte di un tutto.

Per tornare al tennis, Federer e Nadal, inizialmente inseguiti partendo da lontano, li ha ormai raggiunti. Ma loro sì che sono portati in trionfo, venerati, osannati dal mondo che hanno conquistato. Djokovic no. E rosica. Non accetta questa disparità di trattamento, lui che vince di più, che farà incetta di altri titoli. A parità di statuto, gradirebbe la medesima considerazione. Perché loro sì e io no? La risposta è semplice: Roger e Rafa non se lo sono posto, quell’interrogativo. Hanno fatto breccia nei cuori degli appassionati, divisi più o meno equamente (la proporzione poco importa) tra la classe dell’uno e la forza dell’altro, accomunati però da un’empatia che li avvicina alla gente. Potere dei titoli ma, soprattutto, del modo di ottenerli, di porsi, di essere.

Soffre, Djokovic, ma con quel distacco deve convivere. Non è picchiando il pugno sul petto che le cose possono cambiare. Un titolo in più non sposta di una virgola la questione. Questo però non giustifica l’atteggiamento ostile di cui fu vittima a New York, contro Federer, e parzialmente a Melbourne, contro Thiem. Ingeneroso, nei suoi confronti. Scorretto. Da numero uno degno quale è, che tale privilegio si è conquistato a suon di vittorie e di lavoro, merita maggiore considerazione, siamo d’accordo. Il popolo del tennis può non amarlo alla follia, ma gli deve il rispetto e la riconoscenza che si devono a un atleta che quando busserà alla leggenda della disciplina troverà qualcuno che lo farà entrare, in quanto ospite atteso.

Insomma, Nole può continuare a scalare la montagna dei record. In cima, punterà la sua bandiera e lo sport gli tributerà tutti gli onori che merita. Quanto all’affetto della gente, è ormai tardi. Quella vetta è già occupata.

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