Commento

‘Juden hier’ e la memoria

A insudiciare il 75esimo anniversario della liberazione di Auschwitz sono quelle due parole, infami e terribili, apparse su una casa piemontese

27 gennaio 2020
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La Stella di Davide. E due parole. Soltanto due. Ma così violente ed evocatrici. “Juden hier”. Qui abita un ebreo.

Lo stesso simbolo e la stessa minacciosa scritta con cui i nazisti imbrattavano le porte delle abitazioni dei ‘nemici’, da stigmatizzare, isolare, cacciare, e in definitiva da eliminare. ‘Nemici’ che non avevano dichiarato nessuna guerra, ma che tanti paesi, ancor prima di Hitler, pur senza teorizzare la ‘soluzione finale”, avevano comunque ghettizzato, indicato come si segnala una malattia contagiosa, da contenere se non da estirpare.

Quelle due parole, infami e terribili per ciò che vogliono suggerire, e riproporre, sono apparse su una casa piemontese. A insudiciare la Giornata della Memoria, che cade ufficialmente oggi, settantacinquesimo anniversario della liberazione di Auschwitz: il simbolo del male assoluto, la Shoah, lo sterminio di milioni di ebrei, colpevoli, come ha detto la sopravvissuta Liliana Segre, “semplicemente di essere nati”. Ma, poi, l’apertura del campo dello sterminio, anche simbolo fondatore, insieme ad altri, della democrazia che può durare solo se si impegna a non dimenticare cosa fu quella barbarie, a vigilare, ad oprarsi affinché non solo non si ripeta, ma che nemmeno possa rialzare la testa.

È vero, c’è memoria e memoria. Ce ne sono anche di astiose, revansciste, vendicative, che sperano di rifarsi, anche ricorrendo alla violenza, di un presunto torto storico subito e che, dopo il 1945, hanno già riempito le fosse con milioni di altri innocenti. C’è anche la memoria di chi pacificamente non intende rinunciare all’ottenimento di un palese diritto negato, che invece la politica della sopraffazione nega. E poi c’è questa memoria, quella su cui siamo invitati a riflettere in queste ore, ma che non dovrebbe mai assopirsi: maestra, formatrice, ammonitrice, che esorta a non dimenticare con quanta disinvoltura ci si possa riavvicinare al baratro.

Quel “Juden hier”, è altro ancora. È la conferma, così come per razzismo e nuovo fascismo, che certe parole, certe idee, certi impulsi sono lentamente ma inesorabilmente sdoganati; che un linguaggio ferocemente violento e divisivo di certa politica è una continua semina di odio; è la riabilitazione di un negazionismo che c’è sempre stato ma che ora si sente ancor più incoraggiato da chi – per convinzione o per calcolo – è spiccio e sbrigativo nel condannarlo, se non del tutto silente. Ma nella mano dell’imbrattatore di Mondovì c’è persino di più. In quella casa non ci abitano ebrei. Era stata la casa di una resistente antifascista italiana, deceduta anni fa, torturata e deportata in un lager nazista, e che – sopravvissuta – aveva raccontato le terribili violenze inflitte alle donne ebree prigioniere, prima della loro eliminazione. Dunque, l’antisemitismo associato al tentativo di demonizzare la resistenza. Non un errore, ma una saldatura due volte odiosa.

Naturalmente sono subito scesi in campo i ‘minimizzatori’. “Che sarà mai”, “L’iniziativa isolata di un deficiente”, “Nulla di contaminante”, “La solita sinistra che grida strumentalmente alla Luna”. Come se da anni i sondaggi non segnalassero unanimemente che gli atti di antisemitismo si sono, come se le stragi non lo confermino, moltiplicatisi in troppi paesi, al di qua e al di là dell’Atlantico, ritenendosi gli autori autorizzati, sospinti, giustificati dall’odio razziale e anti-inclusivo, dai sentieri stretti e pericolosi del nazionalismo più becero, e dal continuo esercizio della banalizzazione. Banalizzazione di chi crede o vuol far credere che nulla sia accaduto, e nulla stia succedendo. Anche questo un pericoloso oltraggio.

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