Commento

Giovani e lavoro, inclusione fa rima con formazione

Aiutare chi è in difficoltà a trovare la propria strada non è una cambiale in bianco a dei lazzaroni, ma investire in una società coesa ed equa

Ti-Press
14 gennaio 2020
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Quando si tratta della formazione dei giovani, soprattutto quelli meno fortunati o con un passato più problematico, il discorso non può essere relegato a semplice questione – o peggio, polemica – politica. Non può soprattutto alla luce dei numeri emersi ieri durante la presentazione del progetto ‘Obiettivo 95%’, con il quale il Consiglio di Stato vuole incrementare il numero di ragazzi che entro i 25 anni ottengono un diploma del secondario II, a oggi l’88%. In concreto significa che ogni anno in Ticino 350 giovani spariscono dai radar del sistema formativo. Giovani che dopo aver conseguito la licenza media interrompono, quindi, la formazione post-obbligatoria. Alcuni scelgono altre esperienze fuori Cantone o in un altro Paese, come alcuni seguono altri percorsi. Ma il dato resta, e preoccupa. «Possono sembrare pochi, ma per noi sono troppi» ha infatti commentato il direttore della Divisione della formazione professionale Paolo Colombo. È quindi benvenuta una misura incisiva come quella di istituire l’obbligo formativo per i giovani fino al compimento dei 18 anni di età. Come è benvenuta una forte presenza in campo, più che sugli spalti, da parte dello Stato. Che, almeno nelle intenzioni esposte dal governo, sarà attore principale nel raggiungere quei ragazzi che smettono di formarsi per aiutarli a cercare altre strade per arrivare a un diploma. Perché il rischio di esclusione sociale, in un Cantone dove il tasso di povertà e il tasso di rischio di povertà sono il doppio della media nazionale, è dietro l’angolo. Occorre insomma agire da subito, perché un’interruzione della propria formazione può portare a un futuro connotato da termini quali povertà, disagio, disoccupazione, assistenza. Con costi sociali non indifferenti, oltreché umani.

Aiutare chi resta indietro non è fare beneficenza, è volere mettere in atto tutte le soluzioni affinché chi fa più fatica venga stimolato, motivato a trovare un proprio percorso di realizzazione. Arrivare ad ottenere un diploma non comporta ‘solo’ l’apertura di una corsia preferenziale per trovare un lavoro in un mercato sempre più complicato e competitivo, ma è anche motivo di orgoglio personale. È anche un motivo per guardarsi allo specchio ed essere orgogliosi di sé stessi, orgogliosi magari di essere riusciti a raggiungere un obiettivo su cui in pochi avrebbero scommesso. I cosiddetti ‘ultimi’, coloro che per i motivi più disparati non hanno potuto tenere il passo dei propri coetanei, non possono e non devono essere lasciati indietro. Davanti al loro futuro, o quantomeno davanti alla possibilità di dar loro la possibilità di scriversene uno, lo Stato non può essere figura passiva. Per questi motivi la Commissione parlamentare Formazione e cultura prima e il Gran Consiglio poi avranno la forte responsabilità di dare un segnale chiaro sulla giusta direzione da prendere. Senza dimenticare che in politica la forma è sostanza, e che quando si parla di sostenere il futuro di chi oggi parrebbe non averlo è meglio privilegiare soluzioni concrete a polemiche politiche di basso rango e di cortile, confrontate con il problema. Se la vivacità del dibattito, beninteso anche nelle Commissioni parlamentari e nel Legislativo cantonale, è dimostrazione di una democrazia in salute, questo dibattito è auspicabile che non si trasformi in un tiro al piattello nei confronti di un progetto che non è una cambiale in bianco girata a dei lazzaroni. Ma che è quanto di più alto e nobile possa fare uno Stato: investire in una società più equa e coesa.

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