Distruzioni per l'uso

Di tortellini e di polli

La decisione di offrire ai musulmani tortellini senza maiale – alla festa del patrono di Bologna – ha fatto discutere anche in Ticino. A sproposito

3T (Wikipedia)
7 ottobre 2019
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Preferirei non parlare di tortellini. Un po’ perchè è triste che la politica si abbassi a cose del genere, un po’ perché, da romagnolo, preferisco i cappelletti. Epperò mi tocca, dato che la polemicuccia è arrivata anche qua da noi, grazie all’esperta di politica internazionale del ‘Mattino’. Sintesi della questione, per chi la scorsa settimana abbia avuto cose più serie da approfondire: per la festa di San Petronio, il patrono di Bologna – “lo sprechi il tuo odor di benessere / però con lo strano binomio / dei morti per sogni davanti al tuo santo Petronio” – sono stati serviti anche tortellini col ripieno di pollo, invece del tradizionale maiale. Così anche i musulmani (e gli ebrei) osservanti hanno potuto mangiarne; e infatti sono stati ribattezzati ‘tortellini dell’accoglienza’. Apriti cielo. Ne è nata una polemica simile a quelle dell’Udc sui cervelat nelle scuole argoviesi. Con la differenza che comunque si sono serviti anche i tortellini tradizionali, per cui l’affaire è ancora più pretestuoso. 

Matteo Salvini, naturalmente, ne ha approfittato subito: “Cercano di cancellare la nostra storia e la nostra cultura”. Se vi pare strano associare la cultura coi tortellini, ricordatevi che noi italiani – come mi fece notare un amico americano – siamo forse l’unico popolo che adora parlare di cibo mentre mangia: una specie di incesto enogastronomico che a sinistra parte dalle Feste de l’Unità e arriva fino a Eataly (sic transit), a destra discende dalla famigliola del Mulino Bianco fino alle merende su Facebook del Capitano. Per ‘noi’ – generalizzo un po’, ché poi anche i ticinesi non scherzano – il mangiare non è mai solo sfamarsi: è la parte per il tutto, un’enorme sineddoche che pretendiamo di ergere a simbolo identitario assoluto. Sul cibo proiettiamo ogni cosa: la famiglia, le tradizioni, quel bel mondo idilliaco di una volta dove i bambini giocano con le galline nell’aia, tutto pranzi della domenica, donne ai fornelli, ubriachezza molesta e violenze coniugali. E quindi il tortellino, sacra iconostasi dell’identità bolognese quanto Gianni Morandi, non si tocca.

Più strambo è il fatto che alla canizza si sia aggiunto anche Ernesto Galli della Loggia, storico ed editorialista del Corriere della Sera (e di quello nostrano). Secondo lui, i tortellini al pollo rappresentano “una sfida epocale alla Chiesa” (sic) lanciata da “un’ideologia etica di ambito planetario” che “è andata via via emergendo, per la prima volta nella storia, muovendo da un nucleo originario rappresentato dalla formulazione dei diritti umani” (pensavo si chiamasse semplicemente liberalismo. Scemo io.) Di quest’ideologia sarebbero “venuti progressivamente a far parte il pacifismo, l’ecologismo, l’antisessismo e quant’altro potesse essere compreso in un’indistinta prospettiva mondialistico-buonista”. Manca solo Soros. A dare retta a GdL – che qui ricicla tutto il lessico del nazionalismo più retrivo – “la rinuncia bolognese al maiale testimonia in modo perspicuo di una postura che la Chiesa cattolica tende oggi ad assumere. E cioè la tendenza a deporre ogni tratto della propria identità storica che denunci uno scostamento troppo marcato dai principi dell’indistinto etico-mondialista.”

Per carità, bellissimo l’aggettivo ‘perspicuo’. Però mi pare un po’ esagerato dire che dal tortellino al pollo – emblema del “farsi eguale al mondo” – “dipenderà l’avvenire del cattolicesimo”. Sicché non stupisce che il povero GdL si ritrovi citato anche sul ‘Mattino’: “Ormai, queste ‘scemenze’, volte a favorire – si dice – una maggiore integrazione (se questa è integrazione, siamo proprio al delirio!) a scapito delle nostre tradizioni, si susseguono con una certa frequenza”. Che finezza.

A entrambi, dato che se la prendono con la sbandata “etico-mondialista”, vorrei raccontare una storia minima. Quando vivevo a Bologna andavo spesso a mangiare i tortellini in una bettola in via delle Belle Arti. Servivano praticamente solo quelli e il friggione, il resto del menù era un riempitivo che nessuno si era mai azzardato a ordinare; dalla cucina se ne vedevano uscire ogni minuto, a quintali. Una volta il cameriere lasciò aperta la porta, e sbirciai dentro. Ci saranno state sei o sette persone chine su un tavolone a piegare tortellini, con un savoir faire e una rapidità ipnotici. Erano tutti immigrati.

“E i tuoi bolognesi, se esistono / ci sono ma ormai si son persi...”

 

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