Commento

Minimizzare lede quanto offendere

Evviva la linea dura, quando porta (finalmente) a qualcosa di concreto. A qualcosa che assomiglia a una svolta, tesa a sradicare ignoranza e violenza dagli stadi

3 ottobre 2019
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L’As Roma, è storia recente, ha bandito a vita dal proprio stadio il tifoso – chiamiamolo così, per pigrizia lessicale – reo di aver insultato il difensore Juan Jesus con epiteti razzisti, vigliaccamente nascosto dietro il cellulare, via social. Il club lo ha identificato e punito, senza se e senza ma. Quando si dice un provvedimento esemplare, una misura finalmente seria, e definitiva.

Simile alla denuncia da parte della Juventus alle forze dell’ordine di alcuni capi della tifoseria organizzata bianconera, finiti in manette e, di fatto, anch’essi cacciati dallo stadio, l’ambito nel quale agivano come padroni di casa, con le chiavi del potere in saccoccia. Finché qualcuno ha finalmente deciso di impedirlo. Non è mai troppo tardi.

Evviva la linea dura, quando porta (finalmente) a qualcosa di concreto. A qualcosa che assomiglia a una svolta, tesa a sradicare ignoranza e violenza dagli stadi che ne sono intrisi.

Uno spiraglio di luce, in un contesto che però continua a regalarci storie buie, tristi da non credere, in contrasto con i mezzi di cui le società calcistiche italiane si sono dotate, grazie al varo di nuove e più efficaci norme contro razzismo e infiltrazioni malavitose di vario genere.
Alla volontà sbandierata più o meno da tutti di mettere ordine e di fare pulizia, fa ancora da contraltare il tentativo maldestro e senza vergogna di minimizzare, di sviare, di spostare il discorso per non entrare nel merito. Di banalizzare.

Così, accade che a Cagliari e a Verona, degli ululati che non sono dei ”buu” bensì degli “uh-uh” (la differenza non è solo semantica, mi pare che sia fin troppo evidente) piovuti dagli spalti all’indirizzo di Lukaku dell’Inter rispettivamente Kessié del Milan, vengano fatti passare dalle società (e dalla frangia di tifosi che se ne è macchiata) non come gesti di intolleranza, bensì come espressioni del ‘tifo contro’ che in Italia è prassi, oseremmo dire costume. Passi per la malcelata ammissione di sottocultura del tifo, schiaffo alle regole del fair-play (in definitiva, il male minore), ciò che più turba è il tentativo di negare l’evidenza, o di minimizzare la questione. Ma riescono a fare anche di più: rivendicano la moralità di un popolo intero, ricordando all’opinione pubblica quanto i sardi o i veneti (o chi per essi) siano storicamente ospitali e solidali. Non ci siamo, non è questo il problema. Assurgere ad avvocati di ufficio è fuori luogo, farsi portavoce di un popolo intero è presuntuoso.

Chi sgarra va isolato e cacciato, altro che “ma che volete che sia” in stile Lotito, presidente della Lazio, vittima di una caduta di stile che non può essere solo dialettica: “Quando ero piccolo – ha detto–, spesso facevano “buu” anche a giocatori non di colore, con la pelle normale”. Pelle normale? Uscita imbarazzante, corretta con un “di pelle bianca” affatto riparatore. Riecco sdoganata quella fastidiosa superficialità che non è meno grave della maleducazione che si tende a banalizzare, invece di combatterla.

Una tesi indifendibile, ridicola, un insulto all’intelligenza. Il tentativo di giustificare l’ingiustificabile, di trattare la questione con superficialità, evitando di entrare nel merito, è fastidioso al pari del gesto stesso. Purtroppo è un esercizio comune e diffuso. Al momento, sembra prevalere sulla volontà di andare fino in fondo da parte di chi la via ha deciso di indicarla, invece di svicolare.

È un peccato, perché la soluzione c’è, e si declina in vari modi: condanna, sanzione, bando, espulsione. A seconda.
Mica serve coraggio, basterebbero onestà intellettuale e coerenza, a scapito della demagogia del giorno dopo, con cui ci si riempie la bocca quando fa comodo.

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