DISTRUZIONI PER L'USO

Che palle, la democrazia

È una frase che sento sempre più spesso. C’è da capire quali siano le alternative

M. C. Escher, Salita e discesa, 1960 - Pinterest
14 settembre 2019
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“Che palle, la democrazia”. È una frase che sento sempre più spesso, nell’ultimo decennio. A volte detta in modo scherzoso, altre meno. A livello mondiale, poi, quell’avanzata che fino a pochi anni fa sembrava inesorabile – c’era perfino chi la democrazia voleva esportarla, quanti ricordi – si è arrestata: dal 2011 il numero di Paesi catalogati come democratici ristagna, dopo l’impennata fra gli ultimi anni Ottanta e il Duemila.

Sindrome cinese

Ora si ricomincia a confrontare il modello democratico con altri paradigmi, a chiedersi se per caso non ci sia in giro di meglio. La domanda è legittima, anche perché la democrazia ideale non esiste; le risposte sono poco convincenti. Daniel A. Bell, che insegna scienze politiche in Cina, è arrivato addirittura a chiedersi se non sia meglio la “meritocrazia” di Pechino. Dopotutto – questa la tesi – il modello cinese intriso di confucianesimo mette al potere persone competenti, ‘mandarini’ capaci di garantire crescita e benessere; a dimostrarlo sarebbe il boom economico. Dalle nostre parti la tesi è stata ripresa dal giornalista Federico Rampini. Su ‘Azione’ è arrivato a scrivere che per la Cina “termini come ‘comunista’, ma anche ‘dittatoriale’, sono inadeguati: vanno bene per la Corea del Nord, non per un regime che consente ai propri cittadini di viaggiare liberamente all’estero, di studiare nelle università americane, di scegliersi il lavoro che vogliono, di arricchirsi”.

A Rampini si potrebbe contestare che quella di un partito unico che perseguita le minoranze etniche e i dissidenti, che sbatte nei campi di concentramento milioni di persone, che controlla ossessivamente i suoi cittadini e minaccia i suoi satelliti come Hong Kong è una dittatura, e sarebbe ora di smetterla con certi eufemismi assolutori (“autoritario lo è di certo”, bontà sua). Bell – che svolge la sua indagine con maggiori sfumature e ben altro rigore – ha il vantaggio di mostrare l’importanza di una classe politica ben formata, ma ammette lui stesso problemi come la corruzione dilagante, l’inquinamento, la distanza crescente fra i pochi ricchi e i tanti poveri. Dimentica invece, come gli ha fatto notare Gideon Rachman sul ‘Financial Times’, che quello della meritocrazia cinese è più che altro un mito: Xi Jinping è figlio di un vecchio tirapiedi di Mao, la formazione è negata a chi contesta le regole politiche e sociali, e comunque la crescita economica precede di decenni l’ascesa dei plurilaureati al comando del partito. 

Troppo facile

Cina o no, è interessante notare che il dibattito sui limiti della democrazia può germogliare solo al suo interno. Come dice Corrado Guzzanti: è facile fare il fascista in democrazia, ma prova a fare il democratico sotto il fascismo. Il paradosso finisce a volte per avvilupparsi in una sorta di surreale ciclo continuo, una scala di Escher per ebefrenici: così a Roma si sono visti manifestanti fare il saluto romano per contestare la “mancanza di democrazia” (sic) del nuovo governo.

Che poi si aspiri a una meritocrazia assolutista o all’uomo forte, la radice del fenomeno pare sempre la stessa: una profonda delusione per il paradigma democratico. Gli studiosi la spiegano in molti modi: il deteriorarsi degli standard di vita, le disuguaglianze crescenti, la scontentezza per una classe politica lontana e non priva di cialtroni. Si può aggiungere anche una crescente confusione fra la democrazia costituzionale – quella che si fonda sulla rappresentanza e sulla separazione dei poteri – e la sua versione caricaturale e grottesca, che in nome della ‘sovranità popolare’ sdogana l’ostracismo e la dittatura della maggioranza (“ma la democrazia deve pur essere qualcosa di diverso da due lupi e una pecora che votano su cosa mangiare per cena”, obietta giustamente il libertario James Bovard). Dopodiché lo scontento è legittimo, la delusione comprensibile, il sistema migliorabile. Purché si tengano bene a mente due elementi fondamentali: che i nostri rappresentanti sono quasi sempre lo specchio di quello che siamo noi, nel bene e nel male; e che quando si lascia la palla a una squadra sola o al bulletto di turno, poi diventa impossibile farsela dare indietro.

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