Commento

Se il capitalismo si fa ‘buonista’

S’è calcolato che mezzo secolo fa lo stipendio di un amministratore delegato di un’azienda di successo fosse di 20 volte superiore a quello dei suoi dipendenti

9 settembre 2019
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S’è calcolato che mezzo secolo fa lo stipendio di un amministratore delegato di un’azienda di successo fosse di 20 volte superiore a quello dei suoi dipendenti. Oggi ha raggiunto mediamente lo spropositato rapporto di 311 a 1. Ma con non pochi casi ancor più clamorosi.

Uno dei più noti è quello di Mattel, colosso americano nel settore dei giocattoli, dove il numero uno della società arrivò a un salario annuo di 4.987 volte più alto (pari ad oltre 31 milioni di dollari) dello stipendio di un lavoratore del gruppo. Del resto, lo scorso anno, uno studio del sindacato Unia, analizzando la situazione delle 36 maggiori imprese elvetiche, definì ancora abissale la differenza fra alti e bassi salari.

Ed ecco che ora 181 dirigenti di grandi imprese americane, riunite nell’associazione “Business Round Table”, che sommate realizzano la colossale cifra d’affari di 7’000 miliardi di dollari, promettono un nuovo vangelo capitalista. Un decalogo dei buoni propositi, sottoscritto da illustri paperoni, dal ceo Jamie Dimondi JPMorgan al Jeff Bezos proprietario di Amazon. Un vangelo che, in sostanza, prevede: la fine della dittatura degli azionisti (quelli che si fregano le mani anche quando ingiustificabili licenziamenti fanno lievitare i loro guadagni), minor ossessione per il profitto, più etica, maggiori investimenti per i lavoratori, più rispetto per i consumatori e più sensibilità ecologica per le comunità in cui si opera e si produce.

Insomma, il business dal volto umano, su un pianeta in cui continua la cosiddetta“vergogna dell’1 per cento”: cioè di quell’un per cento della popolazione mondiale che guadagna quanto gli altri 4 miliardi dei più poveri, e gode del 55 per cento dei beni complessivamente consumati.
Come spiegare la svolta annunciata dai super-manager statunitensi? Consapevolezza di disuguaglianze sempre meno giustificabili e sostenibili? Sincera presa d’atto della responsabilità sociale delle imprese? Intelligenza? Semplice, furbesco opportunismo nell’era della contestazione globale alle élite finanziarie? Oppure autentica rivoluzione rispetto a quando (era il 1997) la stessa “Round Table” aveva fatte proprie e chiesto di mettere in pratica le tesi dell’economista Milton Friedman, proclamando la necessità di massimizzare la ricchezza degli azionisti?

Evidentemente, al di là delle eventuali buone intenzioni, gli imprenditori americani (beneficiari del generosissimo taglio alle imposte aziendali deciso da Donald Trump) hanno almeno teoricamente deciso di adeguarsi al segno dei tempi: aumenta il rancore collettivo per la profondità delle disuguaglianze e la sensibilità per la difesa dell’ambiente.

Sembra ci sia voluto un intero anno di contatti e trattative per elaborare il nuovo testo. Qualcuno ha ricordato loro che sarebbe bastato “dare un’occhiata ai loro archivi”. Avrebbero scoperto che già 38 anni fa lo stesso gruppo di imprenditori aveva ammonito sulla necessità che in definitiva le “attività imprenditoriali devono avere un senso sociale... e si elevino al di sopra delle (sole) considerazioni di guadagno”.

Fu semplicemente “la riscoperta dell’acqua calda”. Rimasero parole al vento. Le cose sono andate in direzione del tutto opposta. Con le conseguenze e le stridenti crescenti ingiustizie che sono sotto gli occhi di tutti.

Perché oggi dovrebbe essere diverso, se anche i vocianti populismi si guardano bene dal toccare la sostanza del sistema?

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