Commento

Se l’odio razziale esplode nei social e alle urne...

Che fare? Occorre puntare sulla conoscenza reciproca per favorire l’integrazione e limitare la precarietà economica

3 settembre 2019
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Razzismo sotto la lente in due notizie di fresca data che non possono non far riflettere. Domenica dalle urne tedesche, mentre la comunità internazionale commemorava l’80esimo anniversario dell’inizio della Seconda guerra mondiale (con la Germania che ha chiesto nuovamente pubblicamente scusa per il conflitto innescato in Polonia), il partito di estrema destra Alternative für Deutschland ha registrato un importante balzo avanti nelle elezioni regionali in Sassonia e Brandeburgo. Per ora, fortunatamente, regge ancora la coalizione tra Cdu e Spd, ma fino a quando? Inutile sottolineare – ma lo facciamo – che stiamo parlando della Germania locomotiva d’Europa, Stato che, da una parte, vede i suoi massimi rappresentanti chiedere perdono e, dall’altra, vede una parte crescente della sua cittadinanza (preoccupata dall’incombente recessione?) parteggiare per partiti che strizzano l’occhio alla destra estrema vicina ai nipoti di Hitler.

Da noi, ecco la seconda notizia, stando al servizio per la lotta al razzismo, su social media e internet i discorsi che ne sono impregnati hanno raggiunto dimensioni qualitative e quantitative tali da rendere difficile la dialettica democratica. È senza dubbio un preallarme. Si registra poi anche un notevole aumento delle vittime di discriminazione fra i giovani tra 15 e 24 anni, che hanno raggiunto il 38 per cento. E anche questa è una brutta notizia perché in quella percentuale c’è tanto futuro.

Dalla bettola alla rete

Ma cosa è cambiato? Grazie alle rete – che ha sostituito il bar (un tempo si diceva ‘discorsi da bettola’) – oggi le affermazioni razziste corrono ‘tranquillamente’ online. Il dire dell’uno contagia il pensare e il dire dell’altro e ci si influenza a vicenda al rialzo. Allo stesso tempo il diritto si dimostra inefficace, visto che per riuscire a sanzionare (sempre che le sanzioni servano a qualche cosa), si deve fare i conti con le reti internazionali di difficile penetrazione. Una fatica immane per la magistratura inquirente.

Che fare dunque? Si devono avvicinare le diverse realtà sociali e culturali e lo Stato deve rispondere un forte presente, ma ognuno è chiamato a fare la propria parte. Lo straniero, o chi è diverso per colore della pelle, religione o perché porta un vestito/copricapo poco conosciuto, deve fare lo sforzo di integrarsi, di incontrare/frequentare chi qui vive. E chi qui già vive deve, a sua volta, avere occasioni di scambio con chi viene da fuori. È solo attraverso la conoscenza reciproca che le distanze si accorciano. Meglio ancora se i ponti si lanciano partendo dalle proprie capacità, cioè lavorando e assorbendo per osmosi anche la nostra cultura e le nostre abitudini.

Puntare sulla conoscenza reciproca

Non c’è formula migliore del contatto, della frequentazione, della conoscenza reciproca per favorire l’integrazione, arrestando di conseguenza la marcia di chi non accetta e prepara il bunker. L’esercizio è tanto necessario quanto complesso, soprattuto se consideriamo un ulteriore elemento dello studio, cioè il profilo sommario dell’autore-tipo di atteggiamenti discriminatori. È uno svizzero in età lavorativa, con un basso livello di istruzione, che svolge un’attività con poche qualifiche, che è attaccato a valori tradizionali, avanti con gli anni e senza contatti con gli stranieri. Insomma: è una persona che prova sentimenti di rifiuto anche perché si sente minacciato economicamente e socialmente. Non è una giustificazione, ma un dato di fatto da cui partire. Un dato di fatto che leggiamo così: attenti, la crescente precarietà economica figlia la paura e la paura è madre di tanti mostri. La storia insegna.

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