Commento

Sottoccupazione e sicurezza sociale

I cambiamenti sociali e tecnologici impongono di adattare alla realtà odierna i sistemi di welfare state pensati in un’altra epoca storica

(Ti-Press)
27 luglio 2019
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Oltre seicentomila persone, pur lavorando, sarebbero disposte a lavorare di più se solo ne avessero la possibilità. A queste si aggiungono oltre 230mila disoccupati iscritti regolarmente agli uffici di collocamento e quindi immediatamente impiegabili che portano il totale dei disoccupati, o sottoccupati, a oltre 800mila persone. Un dato che la dice lunga sul reale fenomeno della disoccupazione in Svizzera. In realtà il volume di lavoro di questo ‘esercito di riserva’, aggiunto a quello dei disoccupati, corrisponde a quasi 300mila posti a tempo pieno. I numeri rapportati alla dimensione economica del Cantone Ticino non dovrebbero essere tanto diversi, almeno dal punto di vista percentuale. È quanto emerge dai dati annuali per il 2018 degli ‘indicatori complementari sulla disoccupazione: sottoccupazione e potenziale di forza lavoro’ pubblicati dall’Ufficio federale di statistica (Ust).

Ma cosa ci raccontano questi numeri? Che il potenziale interno – al di là della performance più o meno positiva della dinamica economica nazionale di questi anni – non è sfruttato appieno e che anche la crescita ipotetica sarebbe molto più elevata se solo si riuscisse a integrare nel mercato del lavoro più persone. Insomma, avremmo più risorse fiscali, contributive (Avs e pensioni) ed economiche (più reddito) e anche maggiore integrazione ed equità sociale. Sono le donne, infatti, quelle più penalizzate dal fenomeno della sottoccupazione.

Stando sempre ai dati dell’Ufficio di statistica, questa volta della Rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera (Rifos), nel 2018 quasi la metà dei 356mila sottoccupati (47,5%) avrebbe voluto lavorare dieci ore in più la settimana. Addirittura, per il 21,4% di loro, la durata di lavoro supplementare desiderata ammontava a più di 20 ore settimanali. Se consideriamo che la durata media di una settimana lavorativa è di circa 44 ore, si può facilmente intuire che il tempo parziale non è probabilmente una libera scelta del lavoratore, ma una condizione in cui ci si ritrova senza la propria volontà magari dopo un periodo di disoccupazione più o meno prolungato o molto spesso dopo la maternità.

I tempi parziali sono spesso citati come un buon esempio della flessibilità del mercato del lavoro e indicatore di capacità di adattamento di aziende e lavoratori alle esigenze della società moderna che non è più quella del XX secolo, lo sappiamo. Se una tale affermazione poteva essere vera un paio di decenni fa, oggi l’abuso della flessibilità può portare a situazioni di precariato sociale anche estremo. Non più quindi strumento per avviare al mondo del lavoro i più giovani o conservare e tramandare in azienda competenze professionali in procinto di andare in pensione, ma una situazione di fragilità economica e sociale che può protrarsi molto a lungo, anche dopo l’uscita dal mondo del lavoro. Lavori a intermittenza e poco remunerati oggi, infatti, sono la precondizione per rendite pensionistiche basse e maggiori costi domani. Altro che ‘flexsecurity’ ovvero quel mix tra lavoro atipico (tutte quelle forme contrattuali che esulano da durata indeterminata, tempo pieno, orari e giorni della settimana canonici) e sicurezza sociale di cui parlano alcuni economisti. È solo un modo per scaricare sul settore pubblico la scarsa responsabilità delle imprese.

Sappiamo che la produzione di beni e servizi sta cambiando praticamente in tempo reale sull’onda della rivoluzione digitale e tecnologica. Un cambio di paradigma economico che porta con sé tantissime incognite, comprese quelle sulla ridefinizione del welfare.

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