Commento

Pacchetto fiscale bis, un messaggio incerto

Gli sgravi non sembrano essere la risposta più appropriata alle esigenze dell’economia e della società ticinese. Ecco perché

Sarà ora il dibattito in Gran Consiglio a definire le sorti di questo nuovo compromesso politico raggiunto dal governo (Ti-Press)
11 luglio 2019
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Gli sgravi non sembrano essere la risposta più appropriata alle esigenze dell’economia e della società ticinese. Lo scopo dichiarato con le misure varate dal Consiglio di Stato, che prevedono una riduzione di circa il 40 per cento dell’imposta sull’utile delle persone giuridiche entro il 2025, è quello di migliorare la posizione del Ticino nella griglia della concorrenza fiscale intercantonale. Questo, secondo il governo, è imperativo per riuscire a trattenere sul territorio le aziende finora assoggettate al regime delle società a statuto speciale recentemente abolito a livello federale, nonché per evitare la partenza di piccole e medie imprese tassate in via ordinaria, che potrebbero essere attratte da cantoni fiscalmente più vantaggiosi. In seconda battuta viene proposto un taglio lineare di 4 punti del moltiplicatore cantonale d’imposta (del quale beneficerebbero sia la persone fisiche che, di nuovo, le imprese). Su questa seconda misura c’è da dire subito che in un sistema impositivo basato su un’aliquota progressiva (concepita tale a tutela dell’equità sociale), un taglio lineare rappresenta, dal punto di vista formale, una grossa contraddizione che in nulla contribuisce al benessere del tessuto socioeconomico.

Per quanto riguarda la riduzione dell’imposta sull’utile, ci sono diversi argomenti fattuali a sostegno di un certo scetticismo rispetto alle misure annunciate. Nonostante il pacchetto fosse in parte noto da tempo, il principale contribuente del Cantone (il gruppo Kering) ha già annunciato un paio di mesi fa la sua partenza dal Ticino. Questa uscita (più eventuali altre) mette in seria discussione i calcoli fatti dal ministro Christian Vitta sul costo effettivo della manovra, visto che la riduzione dell’imposta sull’utile delle imprese dovrebbe in parte essere compensata con le maggiori entrate derivanti dal passaggio di tutte le società a tassazione ordinaria. A prevalere su questo fronte è l’incertezza.

Ma l’obiezione principale al pacchetto bis si fonda su un ragionamento macroeconomico: senza indurre alcuna crescita sul volume di attività, gli sgravi fiscali andrebbero direttamente a migliorare la redditività delle imprese per via della riduzione dell’onere impositivo, lasciando in mano alle aziende gli avanzi realizzati dallo Stato a furia di sacrifici e misure di risparmio sulla socialità, attuati negli scorsi anni. Su un arco temporale relativamente breve (un quadriennio) stiamo dunque (passivamente) assistendo a un trasferimento di risorse: dal ceto medio e basso della popolazione verso i settori più abbienti della società. In teoria, dicono alcuni, ciò dovrebbe comportare uno sgocciolamento verso il basso, favorendo la conservazione del substrato fiscale sul territorio. In teoria… Nella pratica, ci spiegava qualche giorno fa il professor Sergio Rossi, per rilanciare l’economia (e per evitare di essere costretti, dal 2021, come ha detto ieri Vitta, a ‘darci delle priorità’ – il che vuol dire dover rinunciare a qualcosa –) occorre stimolare la domanda dei beni e dei servizi, il consumo. E ciò sarebbe possibile tramite un massiccio intervento dello Stato che poco c’entra con i 32 milioni destinati a misure di compensazione sociale, comunicate ieri dal direttore del Dfe. Uno Stato che potrebbe ridare potere di acquisto ai settori più vulnerabili e investire di più, anche tramite la fiscalità, nei settori chiave dell’economia: sanità, trasporti, ambiente e socialità. Questo comporterebbe un vero stimolo alla crescita, dove tra l’altro a trarne beneficio sarebbe l’insieme della società (fisco e imprese compresi) e non solo i soliti pochi. Sarà ora il dibattito in Gran Consiglio a definire le sorti di questo nuovo compromesso politico raggiunto dal governo.

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