Commento

Parlamentari contro lobbisti

Consiglieri nazionali e 'senatori' sono i primi lobbisti a Palazzo federale. E hanno eretto l'ennesimo muro contro regole per una maggior trasparenza

(Keystone)
19 giugno 2019
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Ogni consigliere nazionale e ogni ‘senatore’ può farsi rilasciare per due persone una tessera di lunga durata ciascuna: autorizza ad accedere alle parti non aperte al pubblico del Palazzo del Parlamento. I nomi e le funzioni di queste persone – famigliari, collaboratori personali, rappresentanti di interessi – sono elencati in una lista. Il ‘Registro delle accreditazioni’ viene aggiornato ogni mese, dal 2012 tutti lo possono consultare sul sito parlament.ch. Il Consiglio degli Stati vorrebbe completarlo: iscrivendovi, oltre al datore di lavoro dei lobbisti professionisti titolari del ‘badge’, anche i loro mandanti e relativi mandati. Nessuna rivoluzione: niente sistema di accreditamento secondo criteri oggettivi, gestito dai Servizi del Parlamento e con sanzioni per chi sgarra, come prevedeva all’origine l’iniziativa parlamentare del ‘senatore’ Didier Berberat e come oggi auspica perfino l’associazione mantello dei lobbisti svizzeri. No, niente di tutto ciò: i singoli parlamentari manterrebbero l’assoluto controllo sull’attribuzione dei badge di lunga durata; e se questi non bastassero, con una tessera d’accesso giornaliera potrebbero continuare a invitare chiunque sotto il ‘Cupolone’ (lobbisti più o meno professionali compresi) in qualità di ‘visitatori’ (non registrati...).

Sono passati quattro anni dal ‘caso Kazakistan’ (cfr. pagina 2). E la montagna di atti parlamentari depositati sulla sua scia (almeno una decina, firmati da esponenti di quasi tutti i partiti) ha partorito un topolino: un cosmetico ritocchino alla Legge sul Parlamento. Quanto basta, però, per ‘spaventare’ la maggioranza del Nazionale, che ieri non ha nemmeno voluto entrare in materia.

D’accordo, non sarebbe cambiato granché. La correzione («un placebo», è stata definita) avrebbe interessato solo 25 professionisti del lobbying, già accreditati senza però che si sappia chi sono i loro clienti (in realtà lo si sa, perlomeno se lavorano per un’agenzia affiliata alla Società svizzera di public affairs: in tal caso i nomi dei loro mandanti li si può leggere sul sito di quest’ultima). Il lobbismo, inoltre, viene esercitato perlopiù non nella ipermediatizzata Sala dei passi perduti ma fuori da Palazzo federale (al classico ‘Bellevue’ o negli altrettanto vicini locali chic di agenzie specializzate, durante più o meno esclusivi eventi su invito, attraverso scambi di e-mail, telefonate e messaggini e così via), soprattutto nell’imminenza delle sedute di commissione, dove a porte chiuse si decidono le sorti di un dossier. Ed è anche vero che molto dipende dall’accortezza, dal senso di responsabilità degli stessi parlamentari: spetta anzitutto a loro sincerarsi chi è e per chi lavora un lobbista non ben identificato che gravita intorno; non sarà certo qualche informazione in più consegnata in un registro a rendere i politici immuni dai rischi.

Il problema però sta a monte: nel fatto che i primi lobbisti sono i parlamentari stessi. O meglio: sta nel fatto che lo sono sempre di più. In un sistema di milizia del quale il lobbismo è parte intrinseca ma che pone esigenze sempre più elevate, sono costretti a ridurre se non ad azzerare il tempo dedicato alla loro professione. Tendono così ad assumere mandati da aziende, associazioni o gruppi di interesse. E diventano concorrenti diretti dei classici lobbisti. Anche questo spiega perché persino una proposta minimalista volta a rendere un po’ meno opache le regole del gioco sia andata a sbattere contro l’ennesimo muro eretto dai parlamentari. Da quei parlamentari che hanno interesse a mantenere il controllo sul cosiddetto ‘bazar dei badge’, e i lobbisti relegati nell’opacità. Non sia mai che un domani esigenze di trasparenza simili vengano poste a loro...

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