Commento

Il giusto salario non è utopia

L'introduzione di una remunerazione minima legale divide la politica, ma sarebbe solo un modo per mettere un limite all’indecenza

(Foto Ti-Press)
23 marzo 2019
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“Ogni persona ha diritto a un salario minimo che le assicuri un tenore di vita dignitoso”. Da quasi quattro anni la Costituzione cantonale contempla questo principio (all’articolo 13 sui diritti sociali). “Se un salario minimo non è garantito da un contratto collettivo di lavoro (d’obbligatorietà generale o con salario minimo obbligatorio), esso è stabilito dal Consiglio di Stato e corrisponde a una percentuale del salario mediano nazionale per mansione e settore economico interessati”, si prosegue al secondo capoverso. Un principio di buon senso che ha però spaccato in questi anni la politica ticinese, prima tra favorevoli e contrari alla misura e poi tra chi appoggia una forchetta salariale al ribasso (19,50 franchi) e altri che aggiungono un paio di franchi in più l’ora.

Ora, al di là delle divisioni ideologiche, porre un limite legale inferiore ai salari in un cantone che conosce una quindicina di contratti normali di lavoro (il numero più alto di tutta la Svizzera), ovvero decisi dall’autorità perché le parti sociali non sono state in grado di negoziare una bozza di intesa in molti settori professionali, dovrebbe essere una priorità di tutte le forze politiche. Il tema però in campagna elettorale latita. È più facile e pagante puntare il dito su stranieri e lavoratori frontalieri piuttosto che affrontare il vero tema: che tipo di struttura economica e di società vogliamo per i prossimi decenni soprattutto in un’epoca di cambiamenti sia della struttura produttiva, sia tecnologici.

La tesi secondo cui fissare un salario minimo troppo alto gioverebbe soltanto ai lavoratori pendolari d’oltre confine perché i residenti sono occupati altrove (in settori meglio remunerati) e che se proprio non ce la dovessero fare ad arrivare alla fine del mese, i ticinesi potrebbero sempre chiedere generosi sostegni pubblici, si commenta da sé ed è figlia di una mentalità miope da ‘economia a rimorchio’ egregiamente descritta anni fa in un saggio del professor Angelo Rossi. Un modo, se vogliamo, un po’ maldestro di condensare la vecchia massima che vuole che i profitti siano logicamente privati, ma i costi sociali rigorosamente pubblici. Uno strano modo di concepire il ruolo dello Stato, per chi si professa a parole liberale.

E proprio perché il mondo del lavoro, spinto dalle innovazioni tecnologiche, evolverà in forme sempre più estreme e discontinue, in futuro sarà sempre più difficile distinguere se un impiego sarà retto da un rapporto di lavoro dipendente o indipendente. Mettere un argine all’indecenza salariale è quindi solo un atto di giustizia verso tutti (residenti e no) e non è per nulla rivoluzionario.

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