Commento

Gli Oscar delle piccole cose

L'Academy, in aria di rinnovamento, cade con il premio a ‘Green Book’; in quelli minori c'è del buono, da Spider-Man al documentario sulle mestruazioni

Melissa Berton e Rayka Zehtabchi, cineaste di 'Period. End of Sentence' (©Keystone)
26 febbraio 2019
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E mentre tutti si accaniscono sull’Oscar per il miglior film dato al tradizionalista – e per alcuni addirittura reazionario – ‘Green Book’, proviamo a guardare alle altre statuette, quelle “minori” che, nei resoconti, solitamente vengono dimenticate o, al massimo, citate come tutt’altro che consolatori premi di consolazione (vedi il riconoscimento per il miglior trucco e acconciatura, unico premio di otto candidature per ‘Vice’, il film di Adam McKay su Dick Cheney, ma l’elenco potrebbe essere ben più lungo).

Tuttavia è lì, nella parte bassa dell’elenco dei premi, che troviamo alcune interessanti sorprese e forse i primi segni di rinnovamento degli Oscar. Segni meno evidenti dell’allontanamento del presentatore Kevin Hart per un tweet omofobo o dei discorsi a carattere sociale e politico che domenica sera sono stati pronunciati al Dolby Theatre di Los Angeles – vedi Rami Malek, protagonista di ‘Bohemian Rhapsody’, che ha ricordato le sue origini egiziane, o le presidenziali del 2020 ricordate da Spike Lee –, ma forse più duraturi e rappresentativi del processo che l’Academy si è imposta dopo le critiche degli ultimi anni, quando ci si è improvvisamente resi conto che la maggior parte degli ottomila votanti sono maschi bianchi ultrasessantenni. Come a dire: più che autocelebrare Hollywood, si autocelebra una società, e un cinema, fermi agli anni Cinquanta del secolo scorso.

Che cosa troviamo, quindi, negli ultimi Oscar? Innanzitutto ‘Spider-Man un nuovo universo’ di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman miglior film d’animazione. Un lungometraggio non prodotto dalla Disney – da quando è stato istituito nel 2002 è accaduto una manciata di volte, l’ultima sette anni fa –, con protagonista un portoricano e animato in maniera originale e insolita, unendo grafica digitale e disegni a mano. Un film che solo qualche anno fa l’Academy, da sempre tradizionalista, difficilmente avrebbe premiato. Tra l’altro, Peter Ramsey è il primo afroamericano a vincere in questa categoria (e il quarto regista nero premiato per il suo lavoro agli Oscar), ma da questo punto di vista vanno citati – oltre ai premi per attore e attrice non protagonisti andati a Mahershala Ali per il già citato ‘Green Book’ e Regina King per ‘Se la strada potesse parlare’ – l’Oscar alla miglior scenografia, andato a Hannah Beachler, e quello ai migliori costumi, vinto da Ruth E. Carter, entrambe per ‘Black Panther’ della Marvel – che è anche il primo film di supereroi a conquistare ben tre Oscar, confermando che il genere è sempre più accettato dall’Academy.

Così come sono accettati i film nati non per le sale cinematografiche ma per i sempre più popolari servizi di streaming. Pensiamo alle tre statuette (miglior regia, miglior film straniero, miglior fotografia) di ‘Roma’ di Alfonso Cuarón – tuttavia, con tutto il rispetto per Netflix, il film merita di essere visto in sala, ed è in programmazione all’Otello di Ascona – ma soprattutto al documentario ‘Il ciclo del progresso’ (titolo originale: ‘Period. End of sentence’) di Rayka Zehtabchi e Melissa Berton, sempre prodotto da Netflix. Un documentario ben realizzato, per quanto non particolarmente originale a livello cinematografico, che affronta il tabù delle mestruazioni nella società patriarcale. Nelle campagne indiane (ma certo i pregiudizi non si limitano a quella realtà) un gruppo di donne inizia a produrre assorbenti a basso costo, guadagnando l’indipendenza negata da superstizioni e preconcetti.

Anche questo, agli Oscar 2019.

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