Commento

Il 'Bazooka' Bce riposto troppo presto

La fine del programma di acquisto dei titoli pubblici e privati della Banca centrale arriva nel momento in cui il ciclo economico mostra fiacchezza

Mario Draghi (a sinistra) e Mario Centeno, presidente dell'eurogruppo (Keystone)
14 dicembre 2018
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Era annunciata da tempo, la fine del Quantitative easing della Banca centrale europea, ma ieri è arrivata la certezza che dal prossimo gennaio le operazioni di mercato da parte dell’istituto centrale cesseranno. Nei mesi precedenti il presidente della Bce Mario Draghi aveva comunque lasciato una porta aperta alla possibilità di prolungare il programma di acquisto di titoli del debito pubblico e privato degli emittenti dell’eurozona. Non sarà però la fine della politica monetaria espansiva, visto che la Bce – attraverso le banche centrali nazionali – continuerà a reinvestire i proventi dei titoli in portafoglio ben oltre l’eventuale aumento dei tassi d’interesse che a questo punto è atteso non prima dell’autunno del prossimo anno.

Dal marzo 2015 la Bce ha acquistato – secondo criteri parametrati alle singole economie della zona euro e non della mole del loro debito – 2'500 miliardi di euro di obbligazioni di cui circa 350 miliardi di euro di strumenti del debito italiano, 400 di debito francese e quasi 500 di quello tedesco. Da notare che non si tratta di titoli di nuova emissione, ma di obbligazioni già presenti sul mercato o già detenute dal sistema bancario. Questo per dire che è erroneo chiamare Quantitative easing – confondendolo con le analoghe e precedenti operazioni della Fed Reserve americana e della Banca del Giappone, quelle sì di finanziamento del debito pubblico – il programma europeo. Si è trattato né più né meno di uno stimolo monetario diretto principalmente alle banche per far ripartire la leva del credito che si era fortemente inceppata a seguito della crisi ‘del debito sovrano’ seguita a quella finanziaria del 2008. Una crisi tutta interna all’eurozona scatenata dalle improvvide dichiarazioni del duo franco-tedesco dell’epoca (Nicolas Sarkozy e Angela Merkel) sul fatto che gli Stati dell’euro potevano fallire. Si era nell’ottobre del 2010. Alla speculazione finanziaria venne servito un assist eccezionale per accanirsi (o ‘disciplinare’ a seconda dei punti di vista) sul debito delle economie mediterranee. La parola spread, fino ad allora conosciuta solo agli addetti ai lavori, divenne familiare. In pratica si stava dicendo che la Bce non era una vera banca centrale e che non poteva garantire le obbligazioni in euro emesse dai governi europei, soprattutto quelli mediterranei. I movimenti sovranisti, che si stanno imponendo alle urne o nelle piazze, sono anche figli di quella decisione poco lungimirante.

Toccò al nuovo presidente della Bce, Mario Draghi, subentrato al pavido Jean-Claude Trichet (alzò i tassi d’interesse nel pieno della crisi, ndr), trovare, nelle pieghe dell’unico mandato assegnato alla Bce (la stabilità dei prezzi), la possibilità di stimoli monetari che andassero oltre la leva del tasso d’interesse. Prima lanciò a fine 2011 il famoso Ltro (Long term refinancing operation o Piano di rifinanziamento a lungo termine) destinato alle banche: mille miliardi di euro a un tasso dell’1% in due tranche e per la durata di tre anni. Nell’estate del 2012 invece venne varato lo scudo anti-spread o Omt (Outright monetary transactions) che seguì alla famosa frase di Mario Draghi “faremo qualunque cosa per salvare l’euro” (“Whatever it takes…”).
Ora si incominciano a tirare i remi in barca facendo intendere che l’obiettivo di un’inflazione ‘core’ (quella ‘buona’ depurata dai prezzi energetici) tendente al 2% è stato raggiunto (per il 2019 è prevista all’1,6%) e che la dinamica economica è ripartita. Le previsioni della stessa Bce parlano invece di un rallentamento per l’anno nuovo. Insomma, la fine degli stimoli monetari potrebbe arrivare in un momento di stanca del ciclo economico e causare un’accelerazione della caduta.

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