Commento

General Motors, il patto disatteso con gli americani

Uno dei principali gruppi automobilistici mondiali ha annunciato un piano di tagli che coinvolge quasi 15mila persone. Il ritardo di industria e politica

Una delle linee di produzione che verranno chiuse (Keystone)
29 novembre 2018
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Il piano di tagli annunciato dalla General Motors un paio di giorni fa ha riacceso i fari su un settore – quello automobilistico – che sembrava aver ritrovato una sua stabilità dopo la crisi del 2008-2009. Si ricorderanno, all’epoca, i salvataggi pubblici a opera dell’amministrazione Obama di un comparto industriale maturo e per anni sostanzialmente refrattario all’innovazione tecnologica. Furono quei generosi prestiti, per esempio, a permettere alla Fiat di rilevare negli Stati Uniti la decotta Chrysler. Il patto implicito tra costruttori automobilistici e Stato americano fu: ti salvo, ma tu crei lavoro possibilmente in America e magari reinventi l’auto del futuro con motori più puliti.

È vero, i consumi di carburante sono costantemente calati negli ultimi decenni, ma l’auto rimane ancora un mezzo di trasporto dispendioso e inefficiente dal punto di vista energetico. Ricordiamoci che la maggior parte del carburante è bruciato per stare in colonna e permettere il funzionamento dell’impianto di riscaldamento o raffreddamento e di quello stereofonico. La quota di motori ibridi o elettrici puri è sì cresciuta negli anni, ma è ancora lontana dal divenire un trend percepibile a livello planetario. Basta vedere come è mal sopportato dall’industria automobilistica classica Elon Musk, inventore della Tesla, uno dei pochi – se non l’unico – innovatori dai tempi di Henry Ford, fondatore dell’omonimo gruppo automobilistico. Inoltre, se negli scorsi anni non ci fosse stato lo scandalo ‘Dieselgate’ che ha dato un duro colpo alla Volkswagen, probabilmente i motori alimentati a gasolio avrebbero avuto ancora una lunga vita con gli effetti che conosciamo sull’ambiente.

Ma veniamo allo scontro tra General Motors e il presidente Donald Trump che è figlio, in realtà, del patto obamiano di dieci anni fa ora tradito. L’oggetto del contendere è il piano industriale con il quale si è annunciato il taglio del 15% della forza lavoro (circa 14’700 persone) e la chiusura di sette impianti produttivi di cui quattro negli Stati Uniti, uno in Canada e due nel resto del mondo.

La decisione non sembra stupire più di tanto gli analisti e gli addetti al settore: General Motors ha già chiuso tempo fa le fabbriche in Australia e Corea del Sud e in questi ultimi anni è uscita dal mercato europeo e ha rinunciato anche a India, Sudafrica, Russia e Sudest asiatico. Un ridimensionamento che non ha però avuto un grande impatto sui livelli produttivi e sulla redditività dell’impresa automobilistica. Un segno evidente che il processo di automazione in questo ha avuto certamente un ruolo non secondario.

L’obiettivo è di risparmiare almeno sei miliardi di dollari entro la fine del 2020 e puntare su modelli più redditizi (Suv e Pick-Up, maggiormente apprezzati dal pubblico americano) e investire una parte di questi risparmi (1,5 miliardi di dollari) nelle auto elettriche e a guida autonoma. Una sfida, quest’ultima, che l’azienda guidata da Mary Barra sembra aver perduto perché – come gli altri big del settore, del resto – non l’ha nemmeno mai iniziata.

La decisione, inoltre, è di quelle dure da digerire per un presidente che ha fatto del motto ‘America first’ la sua fortuna elettorale tanto che ha minacciato via Twitter – la piazza pubblica del 21° secolo – il taglio di tutti gli aiuti finanziari a favore della General Motors. Perdere gli elettori dell’Ohio, Michigan e Maryland, gli Stati che ospitano i siti produttivi colpiti dalla ristrutturazione e che hanno contribuito alla sua elezione, è un lusso che può permettersi.

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