Commento

Quella pericolosa ottusità eurocratica

Lo scontro tra Commissione europea e Governo italiano è a livelli massimi. La procedura d'infrazione aumenta i sentimenti anti-europei

Il commissario europeo Pierre Moscovici (Keystone)
22 novembre 2018
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Il redde rationem tra governo italiano e Commissione europea alla fine è arrivato. Lo scontro di questi mesi è stato alimentato più da ragioni politiche interne, per entrambe le parti in causa, che da ragioni eminentemente di politica fiscale. Roma puntava sul fatto che rimanere sotto la soglia legale del 3%, quella prevista dai Trattati di Maastricht, nell’ambito della sua legge di bilancio non avrebbe spaventato troppo i mercati e che la Commissione Ue, ormai in scadenza, non avrebbe iniziato una procedura d’infrazione contro una delle principali economie continentali nonché uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea. Insomma, da una parte c’era la malcelata voglia di dare una lezione ai sovranismi emergenti e dall’altra usare la fermezza di Bruxelles nel bocciare i conti pubblici italiani come un’ingerenza di un’istituzione non eletta, brutta e cattiva, nei fatti interni di un Paese sovrano. Manna per la campagna elettorale permanente in cui si trova la politica italiana da anni.

Secondo i contabili di Bruxelles le previsioni di crescita dell’economia italiana sono sbagliate e aumentare la spesa pubblica – lo ripetiamo, per favorire il pensionamento anticipato di chi lo desidera, un fisco più leggero per la miriade di forzate partite Iva e maggiore inclusione sociale per le fasce più deboli della popolazione – è quanto di più deleterio possa esserci per la salute dei conti pubblici e la credibilità del sistema Italia sui mercati internazionali. Il bilancio e l’ortodossia finanziaria, insomma, per costoro vengono prima del benessere e della richiesta di maggiore sicurezza dei cittadini.

Certo, le sparate pubbliche di Matteo Salvini e Luigi Di Maio, i due leader politici che si trovano a sostenere un governo ‘bi-fronte’ sbrigativamente tacciato di populismo (è la nuova accusa di fascismo) non aiutano le ragioni di chi sostiene – a ragione – che le politiche europee di bilancio o cambiano in fretta oppure nel giro di pochi anni si dovrà parlare al passato di Unione monetaria e di costruzione del progetto europeo. È l’ottusità di chi non capisce questo, soprattutto a Bruxelles, che lascia basiti.

La prova di forza tra Commissione europea e governo italiano è nata ancora prima della famosa manovra finanziaria della discordia. I soli confusi annunci di piani di spesa sono stati sufficienti per mettere sotto pressione i rendimenti dei titoli decennali di Stato italiani e aumentare il famigerato spread con gli omologhi tedeschi senza che un euro in più fosse stato ancora speso. Eppure, come ha sottolineato tempo fa Giorgio La Malfa, un politico della Prima Repubblica che non può essere certamente tacciato di populismo, di ragioni da vendere in Europa l’Italia ne avrebbe in abbondanza: il fallimento sfacciato delle politiche di austerità; un pluridecennale rigore fiscale ineguagliato persino dalla Germania (saldo primario positivo ininterrotto tra entrate e spese dal 1992, fonte Eurostat) che stoppa ogni obiezione di possibile azzardo morale; la solidità dei conti con l’estero (bilancia delle partite correnti ampiamente positiva, sempre fonte Eurostat); un’entità della manovra contenuta che non giustifica le scomposte reazioni europee.

Ora arriva la procedura d’infrazione per debito eccessivo, patologia nota almeno da un trentennio. Un debito che si è aggravato soprattutto dal 2008 (era al 99,79% rispetto al Pil) a causa di politiche restrittive attuate nel momento peggiore della crisi internazionale. Fino ad allora e a partire dal 1999 il peso del debito pubblico è sceso lentamente e costantemente per poi salire a circa il 131% odierno. Un ritmo troppo lento per Bruxelles. Ma in macroeconomia quello che conta non è il valore assoluto, ma la tendenza relativa.

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