Commento

Separati in casa: il caos della Brexit

L’accordo di Theresa May agonizza, e non è solo una questione di confini

Sola e abbandonata
(Keystone)
16 novembre 2018
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Quando ci si lascia, si finisce sempre per litigare su cose apparentemente futili: “Guarda che il tostapane era il mio”, “ma se me l’ha regalato mia madre!”. Nel caso del divorzio fra Gran Bretagna e Unione europea, il tostapane è il confine infrairlandese. Anche qui non è tanto l’oggetto in sé che conta, quanto ciò che simboleggia: ovvero che inclinazione debba prendere il piano delle relazioni fra Londra e Bruxelles.

Nessuno vuole un confine chiuso, deleterio tanto per Belfast quanto per Dublino. Ma i Brexiter duri e puri pretendevano di tenerlo spalancato pur ritirandosi dall’unione doganale e dal mercato unico, opzione logicamente contraddittoria e legalmente impraticabile. D’altro canto subordinare l’apertura a un trattamento di favore dell’Irlanda del Nord nel mercato Ue, come proposto dal negoziatore Michel Barnier, per gli intransigenti significa indebolire l’unità del Regno; non mancano di farlo notare gli Unionisti nordirlandesi, alleati imprescindibili di Theresa May.

In attesa che il divorzio venga formalizzato con un accordo di libero scambio – ci vorranno anni –, si è scelto l’escamotage della separazione in casa: l’intera Gran Bretagna resta nell’unione doganale. Nel frattempo Londra potrà seguire la sua strada negli accordi con Paesi terzi, ma in Europa dovrà attenersi a dazi e regole Ue. Questo per comprensibili esigenze di equa concorrenza; così come è comprensibile che in caso di mancato accordo resti in piedi tale unione, con particolare enfasi sull’integrazione nordirlandese. E che non possa essere rescissa unilateralmente. Garanzie necessarie per un così delicato tessuto economico e politico.

La soluzione pare dunque ragionevole. Ma la ragionevolezza non è la prima dote dei Brexiter. Avevano promesso all’elettorato che andarsene sbattendo la porta sarebbe stato facile e vantaggioso; ora sono ben contenti di lasciare che sia la premier a rompersi il naso sull’uscio della realtà. Con l’aggravante che ora vi si aggiungono i Remainer scontenti dell’accordo, che allungano la lista dei ministri dimissionari. La fronda coinvolge ormai un terzo dei ministri e rischia di affrettare un voto di sfiducia. Neppure l’opposizione è interessata al successo delle trattative: Jeremy Corbyn avrebbe solo da guadagnare da eventuali elezioni anticipate. Analoghe tensioni mettono alla prova l’unità britannica, con una Scozia pro-Ue che torna a sfogare le sue fregole indipendentiste.

Si aggiunga infine la scocciatura di molti partner europei, confrontati fin dai tempi di De Gaulle con un Regno Unito che arriva tardi e pretende di cambiare regole già scritte. Col risultato che sul Continente si respira una certa aria di revanscismo: un’inconfessabile voglia di vedere la perfida Albione ‘morire male’, anche se un’uscita conflittuale danneggerebbe l’economia e la tenuta stessa dell’Europa.

Chissà insomma se il governo e l’accordo passeranno l’esame del parlamento. E se si arriverà addirittura a un secondo referendum per approvarlo, con l’opportunità di rientrare nell’Ue dalla finestra (sempre che la si trovi ancora aperta). Le probabilità diminuiscono di ora in ora. Intanto gli elettori inglesi dovrebbero avere capito una cosa: quella di un ‘Rule, Britannia!’ vecchio stile, che combini sovrana indipendenza e soverchio imperio su mari e mercati, è un’illusione retrograda. Vale ancora la desolante osservazione di John Osborne sui nostalgici del Commonwealth: “Passano il loro tempo a guardare avanti verso il passato”.

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