Commento

Per i Democratici, una vittoria a metà

Conquistano la Camera, ma alla loro 'narrativa' manca ancora qualcosa

8 novembre 2018
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È che ci si aspettava di più, via. Non si può dire che ai Democratici Usa sia andata male, alle elezioni di metà mandato: hanno riconquistato la Camera, e potranno mettere un argine al capriccioso strapotere di Trump. Gli è tornato in mano anche un pezzo di Midwest. Il tutto con campagne elettorali gestite più dal basso che dall’alto, come non succedeva da anni; mobilitando i giovani andati in letargo con Hillary e facendo eleggere un numero senza precedenti di donne di ogni etnia, estrazione sociale, orientamento sessuale.

Solo che martedì i liberal sono arrivati a una spanna dal fare molto di più: ad esempio portarsi via al Senato un seggio del Texas, incubatore storico della ‘Right Nation’ conservatrice, che avrebbe incoronato il candidato Beto O’Rourke per le prossime presidenziali; o mettere due afroamericani a capo della Florida e della Georgia, non certo l’avanguardia dei diritti civili; e magari cedere meno seggi al Senato. Non esserci riusciti lascia l’amaro in bocca.
Per due motivi. Il primo è che quest’elezione era anche – lo si è detto ad nauseam e i sondaggi lo confermano – un referendum su Trump, che ora può liquidarla come il solito calo fisiologico a due anni dall’elezione. Il secondo è l’impressione che l’America di destra resti più compatta del variegato universo democratico.

Ora: anche quello delle ‘due Americhe’ è un po’ un cliché giornalistico, peraltro ben più antico di Trump; c’è molto di vero se si guardano le crepe nella ‘salad bowl’ americana, ma in fondo le elezioni si vincono sempre ‘ai margini’, tanto più che il comportamento di branco delle masse elettorali – dal quale nessuno di noi può autoassolversi – comporta ovunque una polarizzazione. Proprio ai margini, dunque, c’è sempre qualcosa da rosicchiare all’avversario: l’impressione è che i Dem ci siano riusciti con quegli elettori che hanno più a cuore i diritti civili, quelli che sulla loro negazione inciampano ogni giorno, come le donne e le minoranze di ogni tipo. Tetragono al cambiamento resta invece chi si preoccupa anzitutto dei diritti sociali: quelle esigenze materiali, di vita e di lavoro che appaiono minacciate proprio dall’avanzata del nero, del migrante, del ‘diverso’ (anche se le statistiche dicono che non è così). Su questo il messaggio democratico non sembra aver convinto chi si trova schiacciato sul fondo della clessidra sociale, il ‘vecchio uomo bianco’ imbottigliato ‘giù da basso’.

Per intercettarlo, oltre a puntare sul razzismo più esuberante, Trump ha saputo rompere col partito su alcuni progetti di smantellamento dello stato sociale. Ha nascosto sotto il tappeto i cocci di Obamacare e ha lenito almeno a parole le paure legate alla globalizzazione, all’età, ai rovesci della vita. E ha promesso di costruire attorno all’elettore il muro del protezionismo, scellerato certo, ma di immediata consolazione.

I Democratici non hanno ancora saputo proporre un’alternativa più convincente e diretta. D’altronde cucire insieme le priorità dettate rispettivamente da razza, genere, reddito, istruzione impone compromessi delicatissimi, e dunque messaggi sfumati e potenzialmente contraddittori. Il contrario della retorica trumpiana, tagliente come una spada, feroce, manichea.

A ciò si aggiunga la divisione interna fra i moderati e i ‘radicali’ fecondati da Bernie Sanders (che poi tanto radicali non sono). Infine l’assenza di una leadership forte, qualcosa che Obama non ha saputo lasciare in eredità. L’impressione è che solo uscendo da questo paradosso, trovando una nuova ‘narrativa’ – per usare un termine fin troppo di moda – i Dem scavalcheranno Trump.

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