Commento

Il tempo della baita

Lassù in quella baita sei quasi obbligato a pensare a chi ti ha preceduto

31 ottobre 2018
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In questi giorni di novembre ci sono tanti modi di ricordare i nostri morti. Tanti quante le esperienze che ciascuno di noi ha fatto con loro in vita. Così, schivando Halloween (se riusciamo) e tenendoci stretta la tradizione del ricordo, siamo portati a dedicare loro un pensiero in più, meditando su questioni metafisiche: vuoi sull’esistenza di qualcosa anche dopo la morte, vuoi sulla possibilità del nulla.

Pensieri sul senso della vita e la sua finitezza che, a dire il vero, credo che i più non abbiano soltanto in questa settimana dedicata ai defunti, ma che ci accompagnano con una certa regolarità anche durante l’anno. Ad esempio, anche spingendoci a rendere un saluto in cimitero a chi non c’è più e a ‘conversare’ con loro in occasioni lontane dalle tradizionali/religiose festività. Un’anziana signora, rimasta senza madre quando aveva all’incirca dodici anni, mi ha più volte detto che da sempre dialoga con lei. Anche se la genitrice ormai non c’è più da oltre settant’anni e il tempo col suo scorrere ha medicato la ferita.

Recentemente sono andato in montagna (veri e propri ‘sbric’, come si dice in dialetto) in una baita appartenuta ai nostri antenati. Uno di quei luoghi, come si suol dire, dimenticati da dio, perché appollaiata su un triangolo di terra strappata al bosco dalle generazioni che ci hanno preceduto, quando l’ascesa al pascolo (e il ritorno a valle) era segnato da diverse pause per far mangiare al bestiame ogni filo d’erba prima di raggiungere la meta.

Ebbene, lassù fra le aspre rupi il tempo si è letteralmente fermato. O forse sarebbe meglio dire che il tempo lo abbiamo follemente accelerato noi qui al piano, in questa società del tutto e subito, dell’immediatezza a ritmi talmente forsennati, che ti fanno persino dimenticare i fatti importanti di ieri e dell’altro ieri. E quando trovi uno storico che te li ricorda, mettendoli uno in fila all’altro e li ricollega con l’oggi, ti sembra così strano perché la corsa ti impedisce di vedere, di dedurre e di pensare.

Dicevo, dunque, del tempo che lassù si è fermato. Eh, sì: perché non c’è l’acqua se non vai a sbloccare il tubo alla fontana e al bacino; non c’è il gas se non porti su le bombole; non c’è il fuoco se non raccogli la legna e la fai seccare; non c’è la doccia, né tantomeno il bagno. Ci sono ancora la vecchia radio e la tv che non ho acceso, perché avevo con me il telefonino, ci sono ancora le cassette col nastro e il giradischi. E poi ci sono tanti arnesi appesi al muro che ti ricordano un’economia povera, che conosceva il ferro, il vetro e la porcellana, ma non inquinava con la plastica e il petrolio.

Certo, nessuno vorrebbe tornare indietro a quegli anni, durati secoli, anzi millenni, con giornate troppo spesso uguali, scandite dai rintocchi del campanile e dalle stagioni. Ma anche le mode dell’oggi e le costrizioni delle tecnologie ci fanno spesso più o meno tutti uguali. E più schiavi. Nessuno vorrebbe tornare indietro, lo ripeto, ma lassù in quella baita sei quasi obbligato a pensare a chi ti ha preceduto. A chi l’ha costruita, che non hai mai conosciuto. A chi ha deciso un benedetto giorno (chissà però a costo di quante maledizioni) di far fare lì una pausa al bestiame prima di raggiungere l’alpe. A chi ha deciso di abitarla nelle generazioni successive e a chi ha deciso di salvarla e trasformarla almeno un po’ per renderla vivibile nei secoli successivi.

Un’occasione, mentre festeggiamo i nostri defunti, per fermarsi un attimo a riflettere su chi prima di noi fu, anche su chi non hai mai incontrato né incrociato, e in definitiva per riflettere sul tempo che passa. O su noi che passiamo e lui che sta fermo.

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