DISTRUZIONI PER L’USO

Qualcosa di nuovo a sinistra, magari

Due pensierini su un progressismo diverso fra Londra, Monaco e Madrid (olé)

Ci sono anche le vie di mezzo - Pixabay CC
20 ottobre 2018
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D’accordo, la sinistra le prende quasi sempre. È così da un pezzo, non è più una buona scusa per piangersi addosso; ché poi qualche successo, ultimamente, si è anche visto. Con tutto che una rondine non fa primavera, prendete la Baviera. Vero, i voti della Spd si sono dimezzati. Ma c’è anche il raddoppio dei Verdi. Un partito uscito dal radicalismo ecologista e dalle nostalgie extraparlamentari, arrivato a conquistare il secondo posto in un Land iperconservatore. Senza cedere di un millimetro di fronte alla xenofobia e all’antieuropeismo à la page, i Verdi hanno scommesso su volti nuovi e sull’esistenza di cittadini cosmopoliti e libertari, attenti ai diritti umani ma anche a quelli sociali. A loro hanno saputo offrire una visione alternativa, pragmatica certo, ma non succube di quanto dettato dai partiti storici. Questi elettori non saranno la maggioranza assoluta, però ci sono: e se devono votare l’imitazione sbiadita delle destre, piuttosto stanno a casa (l’affluenza è passata dal 63,6 al 72,5%, anche se non è solo merito dei Verdi).

Altre rondini

Poi c’è la Spagna di Pedro Sánchez, la cui finanziaria ha spinto il deficit oltre quanto concordato a Bruxelles, un po’ come quella italiana. Ma invece di comprare consensi con sussidi a pioggia e condoni fiscali, Psoe e Podemos si sono concentrati in modo costruttivo sulle fasce più deboli: congelando l’affitto nei quartieri popolari, aumentando di un quinto il salario minimo, raddoppiando gli aiuti alle famiglie. E poi più soldi per la ricerca, l’istruzione, i nidi e le materne. Una manovra da 11 miliardi (contro i 37 italiani) fatta con la testa, tanto che è stata perfino premiata dai mercati.

Il suo machiavellico euroscetticismo può anche non piacere, ma una sinistra capace di entusiasmare è anche quella inglese di Jeremy Corbyn. Uno che molti – mi ci metto anch’io – avevano preso per un paleomarxista redivivo. E che invece, contestando l’austerity e i suoi granitici ragionieri, ha risposto ai sospiri di una classe media impoverita, tagliata fuori dalla privatizzazione di servizi cruciali quali l’istruzione; bisognosa insieme ai più poveri di solidarietà sociale, senza la quale per disperazione ci si butta in braccio ai populisti.

Il numero di iscritti ai Labour è raddoppiato; alle ultime elezioni, pur restando all’opposizione, il partito ha superato il 40% – il risultato migliore dal 2001 – con un programma che in altri tempi sarebbe stato considerato moderato: più asili nido e scuole gratuite, più tasse sui ricchi e le aziende, ma a livelli molto più bassi di quelli vigenti nell’era Thatcher. Misure che sembrano radicali solo se si erge a feticcio della sinistra l’ipocrita Cool Britannia di Tony Blair.

Infine chissà cosa sarebbe successo se in Usa, invece della sbobba riscaldata di casa Clinton, si fosse proposto agli elettori un Bernie Sanders. In fondo, se Trump riesce a vendersi come difensore dei lavoratori è anche perché i liberal si sono arresi a politiche sociali ed economiche a fine corsa, accettando pavidamente che “there is no alternative”, non c’è alternativa (il vecchio slogan della Iron Lady).

Minoranza silenziosa

Insomma, forse una ‘massa critica’ più progressista c’è ancora, a volerla cercare. Per intercettarla, però, sono necessari alcuni cambi di paradigma. Rilanciare la tutela sociale, ma senza scimmiottare formule vecchie di cinquant’anni: penso a un reddito di cittadinanza fatto bene, invece del solito sussidio a fondo perduto che ne è la declinazione grillina; o a un welfare che sia accessibile a chi è troppo debole per muoversi nei labirinti burocratici (coi loro immarcescibili minotauri). Poi serve il coraggio di dire che un’economia non si regge solo sugli sgravi ‘supply side’ e sulle riduzioni d’imposta: gli ultimi vent’anni mostrano che dall’alto al basso, fra dumping e delocalizzazioni, cadono solo le briciole. E ci vuole la disponibilità a far saltare il banco quando queste politiche vengono rimescolate coi soliti giochini delle tre carte, tipo ‘riforma fisco-sociale’. Magari così si toglierebbe terreno non solo al nazionalismo protezionista, ma anche a quei populismi di sinistra che al ‘pensiero unico neoliberista’ oppongono purismi petulanti e giustizialismo di classe, contribuendo all’eterna scissione dell’atomo.

È poi sacrosanta l’enfasi sui diritti umani e civili, senza i quali la sinistra non sarebbe sinistra: ma quando le difficoltà economiche fomentano il più miope egoismo, è anzitutto sul piano dei diritti sociali che si guadagnano consensi e si evitano i pogrom; ferma restando la necessità – l’urgenza – di una politica di accoglienza che non demonizzi i migranti, e neppure li confini nei ghetti di un’assistenza senza integrazione.

Niente da perdere

Poi magari non si vince subito. Ma siamo sicuri che sia meglio ciclostilare ideologie estranee e consunte per prendere voti? Così si rimane ostaggio di narrative altrui, senza mai scrollarsi di dosso l’etichetta di radical chic: e avremo un bell’annacquare i nostri calici con lacrime amare (“pover tapin / e povero anche il vin”, chioserebbe Enzo Jannacci). Tanto più che ormai, in Europa come in Ticino, è tutta una rincorsa a destra: i liberali scaricano i radicali, i democristiani sbolognano i cristiano-sociali, e tutti fanno il verso al garrulo proselitismo delle leghe. Inseguendo un modello che non ha nulla di moderno, e tutto sommato neppure di liberale (se ne è accorto perfino l’‘Economist’). Chissà che allora, dall’altra parte della scacchiera, non si liberi una casella per qualcosa di nuovo. Ma nuovo davvero.

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