Commento

Le facce di bronzo di Riace

È una ingenuità ricondurre a una questione giuridica il caso di Domenico Lucano

3 ottobre 2018
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La magistratura che ha messo sotto inchiesta Matteo Salvini per il sequestro dei migranti a bordo della nave Diciotti appartiene allo stesso potere giudiziario che ha disposto gli arresti domiciliari per il sindaco di Riace, che i migranti li accoglieva aggirando la legge, “se necessario”.

Dunque è una ingenuità ricondurre a una questione giuridica il caso di Domenico Lucano, dei matrimoni di facciata da lui celebrati o dei servizi pubblici affidati a migranti ignorando le norme che li regolano. Esercizio ingenuo o in malafede, se vi si dedicano ministri in carica e i professionisti della menzogna al loro servizio. È semmai una questione politica, e ancor più di mutamento dei tempi, avviati a un’epoca di codificazione di un risentimento che da informe che era si sta facendo sistema. Vagamente fascista, se non è troppo grossa detta così, e se appena si ha coscienza che le scorie della storia non vengono mai smaltite del tutto.

Che insomma un sindaco eluda la legge per dare corpo a un programma di accoglienza e integrazione di migranti altrimenti destinati alla clandestinità, ridando oltretutto vita a un paese avviato allo spopolamento definitivo, è un fatto oggettivamente problematico. Ma più per il contesto in cui questo avviene, che per propria natura. Anzi, si potrebbe dire che a essere problematico è piuttosto il contesto, quello di un Paese, di una classe politica (volendo ancora chiamarla così) e di un apparato informativo-propagandistico che hanno fatto di un fenomeno una minaccia, di un bisogno una colpa.

Nelle sue imperfezioni e velleità, comprese le povertà umane di chi lo conduceva, l’esperimento di Riace (non la sola, ma la più nota di molte esperienze analoghe) ridava senso all’essere comunità, un organismo vivente che ingloba, trasforma e si trasforma, si difende e talvolta per questo espelle, ma soprattutto non si chiude, pena la fine per esaurimento di significato. Vale per una comunità, vale per una “nazione”.

Ma senza insistere a fare filosofia da tre soldi, basterà ricordare, ma sarà solo una coincidenza, che Riace si trova in una Locride in cui le amministrazioni comunali vengono più frequentemente sciolte per infiltrazioni mafiose, in una Calabria dove Salvini, dopo anni di invettive contro il Sud, è sceso a cercare (e trovare) un collegio elettorale sicuro, dove è ben raro che le ’ndrine non riescano a far eleggere chi vogliono loro (gli indagati o i loro sodali tra i capi claque locali del ministro dell’Interno sono ben più di due gatti…).

E che le malversazioni contestate a Lucano – peraltro non ritenute provate dal giudice per le indagini preliminari, che ha accettato una sola delle 15 richieste di arresto – generino un allarme sociale maggiore e siano un reato più grave di quelli che hanno sottratto allo stato intere aree della Regione, è un segno preciso di dove sta andando l’Italia e di come la nouvelle vague grilloleghista cerchi di trarne vantaggio. Che Luigi Di Maio equipari l’arresto di Lucano a un “colpo inferto al business dell’accoglienza” ne è la dimostrazione trasparente e desolante. Nel paese dei “bronzi”, certe facce lo sono e se ne vantano.

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