Commento

La domenica è sacrosanta

Il lavoro festivo dovrebbe rimanere un'eccezione e non essere la regola. Il riposo collettivo ha un valore sociale che non può essere svilito

Ti-Press
13 settembre 2018
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La domenica non è un giorno come un altro e non solo per i cristiani. Anche per i laici dovrebbe essere un giorno dedicato al riposo, allo svago e alla famiglia. Ritemprarsi dalle fatiche settimanali è un diritto di ogni lavoratore e non un privilegio. Ed è la dimensione collettiva del riposo ad avere un valore in sé e non solo il riposo in quanto tale. Ci si dimentica che siamo esseri umani che hanno bisogno di relazioni sociali e non siamo votati solo alla produzione e al consumo.


Le legislazioni sul lavoro di quasi tutti i Paesi occidentali, compresa quella svizzera, sanciscono questo diritto prevedendo eccezioni per i settori che devono garantire un servizio al pubblico 24 ore su 24 e sette giorni su sette (sicurezza e sanità su tutti), ma anche per gli esercizi pubblici (bar, ristoranti, discoteche e in generale tutto il settore turistico) e ci mettiamo pure gli operatori dei media. Sono appunto delle eccezioni e non la regola, e per questo adeguatamente remunerate e compensate con giorni di libero in altri momenti della settimana.


Il periodo storico che stiamo vivendo è invece caratterizzato da una continua estensione del tempo lavorativo e da una continua riduzione del tempo del riposo. Ciò s’inquadra, più in generale, nella tendenza a estendere l’offerta di beni e servizi sia nei giorni dell’anno, sia nell’arco della giornata nell’errata convinzione che sia l’offerta a generare la domanda. La prova è data dal fatto che con l’avvento dell’e-commerce (che non ha orari di chiusura) non sono aumentati i consumi globali, nemmeno in Svizzera: semplicemente una fetta del fatturato è passata di mano, dai negozi fisici a quelli online, con le conseguenze che conosciamo in termini di fallimento di piccoli commerci, ma non solo. Il processo di ristrutturazione dell’intero settore del commercio al dettaglio, per rimanere sempre alla Svizzera, per certi versi è solo all’inizio. Altrove (in Inghilterra e Stati Uniti, Paesi che hanno sposato la deregolamentazione totale) ha mietuto vittime eccelenti con fallimenti di note e apparentemente solide catene distributive. In Italia, altro Paese che ha liberalizzato, il volume delle vendite al dettaglio nel 2017 è stato di 216 miliardi di euro, cinque in meno rispetto al 2011. Un’altra prova del fatto che non è l’ampliamento dell’offerta a generare domanda supplementare. Semmai è il contrario: è l’aumento della domanda, leggasi reddito, a determinare quanto produrre e offrire.


Il dibattito che si è acceso in Italia sull’ipotesi di ridurre le domeniche di apertura dei negozi (proposta da Barbara Santamartini, una deputata leghista) è quindi una battaglia sacrosanta e non solo per gli effetti che potrebbe avere sulle dinamiche di concorrenza da una parte e dall’altra del confine, il famoso ‘turismo degli acquisti’. Riportare all’eccezione il lavoro domenicale e festivo, anche nel commercio, è un modo per dare centralità ad altri valori che non sono solo quelli del consumo ad ogni ora e in ogni luogo.


Si dirà che comunque questi sei anni di liberalizzazione voluta dal governo di Mario Monti hanno generato dei posti di lavoro che con le future regole rischierebbero di sparire. Anzi, si dirà anche che la chiusura è un regalo ai big dell’e-commerce come Amazon. Ed è qui che si incorre in un altro errore frutto della matrice ideologica dominante: in Italia, come altrove, non serve un pessimo impiego, purché sia un impiego. Servono buoni impieghi a salari dignitosi e regole del mercato del lavoro chiare e rispettate, soprattutto dagli imprenditori. Deregolamentare senza prima prevedere tutele adeguate per chi poi è chiamato a garantire la presenza festiva o a lavorare in un capannone della logistica Amazon (che elude anche le norme fiscali) è il modo migliore per precarizzare ulteriormente un mercato del lavoro e una società già fragili.

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